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Canto di Natale: un classico moderno

Sono passati 177 anni, eppure è ancora uno dei classici natalizi più amati

Il racconto di Charles Dickens non ha bisogno di presentazioni. A distanza di quasi due secoli A Christmas Carol è sempre il racconto delle feste per eccellenza. E, specie in questo momento particolare, ha ancora tanto da insegnarci.

Canto di Natale: una storia ancora attuale

Era il 17 dicembre del 1843 quando Charles Dickens pubblicava il suo romanzo breve intitolato Canto di Natale. Non una storia qualunque sulle festività, ma una critica sociale con un profondo senso morale e un insegnamento: non è il denaro che conta, ma il senso di umanità e solidarietà che ci permette di vivere quanto più possibile in armonia con gli altri, e anche con noi stessi. Da allora sono trascorsi ben 177 anni, intere generazioni hanno conosciuto questo racconto – anche noi ve lo abbiamo consigliato tra le migliori letture natalizie – e solo negli ultimi dodici mesi in Italia sono state pubblicate due traduzioni del romanzo.

Grande ispirazione è stata tratta anche nel cinema e nella televisione sin dal primo Novecento. L’adattamento più recente è del 2017 (Dickens – L’uomo che inventò il Natale, con Dan Stevens e Christopher Plummer). Ma cos’è che ancora oggi rende il Canto di Natale una delle storie più note e commoventi di tutto il mondo? Sarà l’atmosfera natalizia, coi cori intonati per le strade di cui l’autore racconta? O l’aria fantasy che ci permette di viaggiare per diverse linee temporali?

Famiglia, affetti e salute – cosa ci insegna Dickens (con Scrooge) nel XXI secolo

Forse oggi, nel 2020, in questo particolare momento storico che si riflette inevitabilmente nella vita di tutti noi, c’è qualcos’altro che rende questo racconto attuale. È il rendersi conto delle cose veramente importanti, una fra tutte il poter tornare ogni sera in una casa che ci accoglie, con delle persone che ci amano, e provare a godersi ogni singolo istante insieme a loro, perché non sappiamo quanto ancora ci resta da condividere insieme.

Nel romanzo dickensiano troviamo il piccolo Tim – il figlio dell’unico impiegato di Scrooge, Bob – storpio e e malato, che potrebbe rappresentare tutti coloro la cui salute, in questo momento, è gravemente a rischio. E quando il vecchio e avaro protagonista chiede allo spirito se il bambino vivrà, questi risponde “Io vedo un posto vuoto nel povero focolare, e, accanto al camino, una gruccetta senza proprietario e gelosamente custodita”. La malattia sta consumando una giovanissima vita, e il misero stipendio che Ebenezer Scrooge dà al suo dipendente è insufficiente a sfamare la famiglia e comprare le medicine per Tim. Una situazione che purtroppo a qualcuno potrebbe tristemente suonare molto familiare, oggi più che mai.

Poi c’è la famiglia. Croce e delizia, si dice, quella da cui a volte vorremmo stare il più lontano possibile. Proprio come fa Scrooge, che respinge l’invito dell’unico parente vivente che ha, il nipote Fred. L’anziano zio odia le festività, e ama la sua cassa e il lavoro più di qualunque altra cosa. O persona. E ciò lo porta ad essere solo e odiato da praticamente tutti, ma ciò sembra non interessargli.

Quante volte noi stessi abbiamo pensato che non ci importa dell’affetto e della presenza degli altri? Alcuni probabilmente tante, altri decisamente meno, ma il desiderio di essere isole deserte ci ha di sicuro sfiorato la mente almeno per un momento. Poi all’improvviso è arrivato qualcosa di totalmente inaspettato (per Scrooge tre fantasmi, per il mondo odierno una pandemia), e abbiamo avuto un assaggio di ciò che significa stare ed essere soli.

Se un vecchio, rigido, avaro “lupo solitario” come Ebenezer Scrooge è riuscito a cambiare e trovare bontà e generosità in un cuore che sembrava ormai così grigio, perché non dovremmo riuscirci anche noi?

Autore: Chiara Anastasi

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