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Dalle risaie della Lomellina all’Everest in velocità: Luca Colli si racconta

Luca Colli, l’alpinista lomellino alla conquista del mondo

Luca Colli, l’alpinista alla conquista del mondo. Lo incontriamo nella sua grande casa nel centro storico di Vigevano, la città un tempo capitale mondiale della calzatura conosciuta da molti per la Piazza Ducale, capolavoro di Leonardo Da Vinci. Come è un capolavoro anche l’impresa che Luca Colli si accinge a compiere in questo mese. Sabato, infatti, l’alpinista lombardo partirà in vista dell’Antartide, dove nei giorni di Natale salirà sul monte Vinson, l’ultima delle cosiddette 7 Summits che pochi alpinisti al mondo sono riusciti a completare. Un progetto ambizioso, che Luca Colli ha iniziato nel 2009, durante il quale ha scalato i monti: Bianco ed Elbrus, Kilimangiaro, McKinley, Cook, Aconcagua, Kosciuszco e Everest ma non solo. Andiamo dunque a scoprire chi è davvero l’alpinista venuto dalle risaie della Lomellina.

Luca, innanzitutto chi ti ha trasmesso questa passione per la montagna poi diventata lavoro?

“Mio nonno. Era Sergente Maggiore degli Alpini che negli anni ’30 fu inviato in Valsesia per costruire la strada militare che passava da Alagna a Macugnaga (tutt’ora esistente). Gli piacque molto la valle e dopo la seconda guerra mondiale comprò un terreno dove vi costruì uno chalet che oggi è passato di proprietà a me. Dunque, da quando sono nato ho sempre passato gran parte dell’anno in montagna, estate o inverno che fosse. Di conseguenza, questa passione per la montagna arriva quando io salivo su un monte alto per vedere che cosa ci fosse oltre. Una curiosità sempre continua dunque. Le prime salite le ho fatte con mio nonno e mio padre, poi ho iniziato a salire anche sui 4000 con una guida e amico di mio padre e da lì non mi sono più fermato”. 

Quando è stato il tuo primo battesimo dei 4000?

“A 10 anni. Siamo saliti sulla Capanna Margherita (Rifugio più alto d’Europa, ndr). Quello che mi ha lasciato il segno è il cielo blu che si può vedere solo a quell’altezza, non te lo puoi scordare. Da lì non mi sono più fermato: ogni anno si doveva per forza salire su un 4000 con la guida, poi gradualmente ho iniziato ad andare da solo fino ad oggi”.

Immagino che in poco tempo hai salito tutte le cime del Gruppo del Monte Rosa…

“Praticamente sì. Iniziando a 10 anni, già a 22 avevano finito tutte le cime del Rosa. Ho voluto ripetere questa esperienza, stavolta scalandole tutte quante in velocità in un giorno solo nel 2008. In quell’occasione ho attraversato dieci 4000 del Rosa in 9h20′ “. 

Le altre cime italiane importanti quali sono state?

“Ho fatto il Monte Bianco due volte, così come il Gran Paradiso. Poi sono salito sul Cevedale, molto bello. Purtroppo non sono riuscito a salire sul Gran Zebrù perché era troppo brutto a livello di condizione di ghiacciaio. Mi piacerebbe approfondire di più la zona del Bianco. Devo solo avere più conoscenze da parte di guide alpine della zona”. 

Ecco, il Bianco è stato uno dei primi delle 7 Summits che hai voluto fare: com’è stato?

“Un’impresa al limite del possibile. Nel 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia ho voluto fare un’impresa particolare. In meno di 24 ore ho scalato ben due montagne. Partendo da Vigevano la mattina, sono andato in Francia per salire sul Monte Bianco. Sono sceso, ho preso un aereo a Torino-Caselle per Catania. Una volta atterrato, mi ha accolto una guida del posto che mi ha portato a Linguaglossa e sono salito sull’Etna. In totale credo di aver fatto tutto in 14h 30′ “. 

Tu ti distingui dagli altri alpinisti perché sali sui ghiacciai in meno tempo possibile… spiegaci un po’

“Non sono proprio uno skyrunner, però con lo stile classico da alpinista (zaino e scarponi leggeri) cerco di salire su una montagna dal basso fino alla cima senza fare tappe intermedie”. 

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Luca Colli durante la sua salita sull’Aconcagua, la montagna più alta del Sudamerica

Quando e perché hai voluto iniziare questo progetto che ora termina con la salita al Vinson?

“Dopo la scalata delle dieci cime del Rosa in giornata, alcuni amici giornalisti e guide alpine mi segnalano una gara in velocità per salire sul monte Elbrus, per la nuova geografia il monte più alto d’Europa. Mi dicono che per la mia preparazione fisica, potrei parteciparvi ed anche di vincerla. Io ci partecipo con non tanta convinzione. Incredibilmente sono arrivato primo. Così mi sono detto: “Se sono riuscito a fare questa cima correndo o comunque in velocità, perché non posso fare le altre vette più alte del mondo?”. E così ho iniziato a completare la lista.

Premessa: il nome 7 Summits non è proprio corretto. La lista originale, stilata da un milionario americano che le aveva scalate tutte negli anni ’80, comprende anche vette in nazioni transcontinentali. Per esempio, la Piramide Carstensz fa parte dell’isola di Papua sponda Indonesia. Ma essendo l’Indonesia in Asia dovrebbe essere l’Everest la vetta più alta dell’Asia. La Piramide Carstensz rientra comunque perché alcuni considerano l’Australasia (in cui c’è appunto l’isola di Papua). Dunque per evitare polemiche ho deciso di percorrere tutte le cime (che sono undici) considerate dalle varie interpretazioni geografiche”. 

Dopo quest’ultima scalata, che cosa lasci in eredità alla storia dell’alpinismo?

“L’impresa che ho fatto io è unica nel suo genere. Avendo scalato non le sette, ma le undici vette più alte per ogni continente/sub-continente, farò una lista tutta mia che si aggiungerà alle altre già presenti”. 

Sei dunque il primo alpinista in Italia a compiere un’impresa simile?

“Non solo, sono il primo alpinista del mondo a riuscirci. Altri alpinisti le hanno fatte, ma hanno seguito le liste “mirate”, ossia seguendo un’interpretazione geografica. Per esempio, Christian Stangl, un alpinista austriaco, ha compiuto la scalata di tutte le vette della lista fatta da Messner. Nella sua lista dunque non figurano il monte Cook, il Kosciuszco, il Wilhelm che io ho invece scalato. Entrambi però abbiamo fatto la Piramide Carstensz. C’è poi lo spagnolo Kilian che pur avendo fatto l’Everest come me non farà il Vinson, come non ha fatto il Cook, né la Piramide Carstensz, né il Wilhelm”.  

Tolto l’Everest, quale vetta ti h dato più soddisfazione?

“Come esperienza è stato il McKinley in Alaska. Lì sei veramente tu e la natura, stop. Sei completamente da solo e devi essere autonomo in un ambiente ostile. Lì sei messo alla prova in tutto, dalla forza fisica ai materiali da usare. Il McKinley è l’anticamera dell’Everest. Se fai una buona performance lì allora puoi pensare di andare sull’Everest. Da un punto di vista tecnico l’esperienza più bella è stata il Monte Cook in Nuova Zelanda. Nonostante sia tra i più “piccoli” di tutti (3700mt), tecnicamente è molto impegnativo. Sono oltre 1000m di parete quasi verticale mista a ghiaccio”. 

Vediamo ora l’Everest: come sei passato in tutte le tappe? Qual è stata la preparazione fisica e mentale?

“L’Everest è stato qualcosa di unico, tant’è che lo sto raccontando in giro per l’Italia attraverso uno spettacolo dal titolo “Torno subito”. Qui racconto cosa è stato. Tutti gli 8000 esigono una preparazione fisica estenuante. Se vuoi scalare un 8000 devi affrontare uno sforzo sia fisico che mentale che il tuo corpo non vedrà mai più. Io mi sono preparato 8 mesi prima di partire, a fine agosto. Da gennaio ho potenziato ulteriormente la preparazione con tre allenamenti a settimana, in cui c’erano ben 15km di corsa in salita… su tapis roulant. Abitando qua in pianura non hai troppe scelte.  Tuttavia, correndo su tapis roulant dovevo focalizzarmi sull’obiettivo, guardando la parete. Poi mi capitava che nel weekend in montagna prendevo uno zaino di 10kg (il peso da portare è più o meno quello) e di fare anche 4-5 volte lo stesso percorso”. 

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Luca Colli durate la sua esperienza sul McKinley (Alaska)

Immagino che avrai anche sentito gente che ci è stata su…

Certo, ho consultato sia Mondinelli (il secondo italiano ad aver fatto tutti gli 8000 dopo Messner) che Simone Moro. Loro mi hanno detto che la preparazione fisica va bene, ma è solo il 50%. Il resto riguarda la fase mentale e devi essere sempre sul pezzo, altrimenti rischi di saltare in situazioni del genere. Devi essere pronto a fronteggiare qualsiasi tipo di disagio non solo fisico ma anche mentale.

Il fatto stesso di dover aspettare (un giorno, una settimana ma anche di più) può distruggerti a livello mentale.  Tu non sai quando sarà il momento per salire e dunque ti prepari sempre. E’ importante essere reattivi anche in discesa: io dopo aver toccato la cima sentivo nella mia testa una voce che diceva: “Hai raggiunto l’obiettivo, mettiti qua e dormi, ed anche se muori pazienza”. Invece no, devi combattere contro te stesso per riprendere il cammino e arrivare da dove sei partito”. 

Quanti giorni hai impiegato alla fine?

Ci ho messo circa 45 giorni per salire, senza contare ovviamente il viaggio di andata e ritorno dall’Italia, la sosta a Katmandu e poi il recupero dopo la discesa“.

Quando sei arrivato in cima cosa hai provato?

Un’emozione indescrivibile. Già negli ultimi dieci metri non capivo più nulla, poi ho cantato l’inno d’Italia per liberare la mia gioia. Tuttavia, io ancora adesso non ho ben realizzato di esserci stato. Quando mi capita di vedere il filmato della salita, mi chiedo: “Ma sono davvero stato su?”. Poi mi fermo, penso e dico: “Eh sì, ci sono stato“. Una sensazione davvero strana“.

Ora viene l’Antartide, che chiude il ciclo di questo progetto. Cosa ti aspetti e cosa farai dopo?

Dal punto di vista tecnico è un po’ più facile essendo meno alto dell’Everest, ma sei comunque al confine del mondo per cui devi sempre stare attento a quello che fai. Sono circa 20km, 2700m di dislivello. In generale ogni montagna non va mai sottovalutata. A livello di sensazioni è una cosa un po’ strana perché si chiude un cerchio di una lunga avventura durata 12 anni. Una volta su ti viene da dire: “E adesso cosa faccio?”. Comunque non finirò proprio tutto, mi stanno proponendo altri percorsi. Valuterò comunque con calma“.

Tolta questa passione per la montagna, tu sei impegnato in altro?

“Sì, sono volontario del soccorso della Croce Rossa presso il comitato di Vigevano. Tuttavia, mi piacerebbe diventare soccorritore in montagna. Sto aspettando che escano i concorsi per le selezioni”. 

A proposito di soccorso in montagna: nel 2020 malgrado le chiusure sulle Alpi italiane ci sono stati oltre diecimila interventi (più del 2019). Un dato che fa riflettere…

Il problema principale degli incidenti in montagna sta nella sottovalutazione di quello che si va a fare. In ogni caso ti muovi sempre in un ambiente ostile, per cui devi prepararti a fronteggiare qualsiasi tipo di situazione. Il rischio zero in montagna non esiste. Nel momento in cui io decido di andare su una montagna piuttosto che raggiungere un rifugio o un bivacco, devo innanzitutto vedere il materiale che serve, il vestiario adatto in base al meteo di tutta la giornata. Poi ci sono gli imprevisti. per esempio, poggio male un piede e mi storto la caviglia. Devo essere in grado di chiamare i soccorsi. Ci sono app semplici come Where AREU del 112 Lombardo fino a quelle più precise come GeoresQ. E poi ci sono oggetti come lo spot, un apparecchio satellitare che permette di individuare la persona in difficoltà esattamente in un punto“.

Per disattenzioni, intendi anche quei turisti che si presentarono in infradito ai piedi del Bianco?

Su quello ce ne sarebbero da dire… La soluzione giusta sarebbe quella di dare alle guide alpine il grado giuridico di pubblico ufficiale. Mi spiego: se io pubblico ufficiale ti vedo al Punta Indren in sandali e infradito io ti faccio una multa pesante e ti rimando indietro. Sei in una zona di pericolo, in più stai facendo un procurato allarme. Se dovessi cadere in un crepaccio o scivolare in una discesa, dovrebbe mobilitarsi una squadra per venire a salvarti. Così si sacrifica del tempo prezioso per interventi che magari sono più urgenti in altri posti in quel momento“.

La montagna lo scorso inverno la montagna ha subito pesanti danni per le chiusure, ma grazie alla campagna vaccinale di massa ora va molto meglio. Siete ottimisti?

Quest’estate c’è stato molto movimento. L’altro giorno ero ad Alagna e ho visto tanta gente salita apposta. Del resto, dopo due anni di fatto di chiusura la voglia negli amanti dello sci era tanta. Speriamo che la situazione possa sempre migliorare“.

A proposito di sport invernali, in questi mesi ha preso piede lo scialpinismo. Secondo te è una moda passeggera oppure resterà anche dopo la pandemia?

No, anzi credo che “contagerà” sempre più persone. Del resto noleggiare l’attrezzatura da sci alpinismo è molto più economico che non programmare una sciata nel weekend o in giornata. Tra prezzo del giornaliero, mangiare e noleggiare gli sci ti costa molto. Lo scialpinismo però è diverso dallo sci in pista. Devi conoscere e sapere dove andare. La gita di scialpinismo deve tenere conto anche del bollettino valanghe e dalla qualità della neve. Non si fa da soli. Inoltre, serve un Arva (dispositivo per la ricerca di dispersi in valanghe). Proprio perché è molto più pericoloso dello sci di discesa su pista, conviene prima consultare una guida alpina del posto che conosce bene i posti e ti indica dove è meglio sciare“.

Tu stesso hai affrontato il Covid. Puoi dirci com’è stata la tua esperienza?

Certo. Sono stato ricoverato tra gennaio e febbraio per circa un mese con la CPAP addosso, una cosa terribile. Tuttavia sono riuscito a guarire ed a recuperare abbastanza in fretta con l’allenamento. I primi tempi è stata molto difficile. Facevo una rampa di scale e mi sembrava di stare sull’Everest, poi piano piano sono migliorato e ho ripreso. Grazie a questa ripresa più o meno rapida delle forze, in estate ho portato alla Capanna Margherita alcuni pazienti trapiantati di polmoni (ma anche di reni) in un progetto in collaborazione con Croce Rossa. La mia esperienza dice che si può tornare alla vita di prima, se si vuole“.

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Luca Colli con alcuni pazienti trapiantati e dei volontari della CRI Vigevano in partenza per la Capanna Margherita quest’estate

 

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