Dizionario Opera

Einstein on the Beach

L’idea di una collaborazione con Robert Wilson venne a Glass dopo aver assistito nel 1973, alla Brooklyn Academy of Music, a The Life and Times of Josef Stalin , «una lunghissima meditazione fatta di movimenti e immagini», che suscita in lui una profonda ammirazione per «il suo senso del tempo, dello spazio e del movimento teatrale, gli elementi essenziali del suo lavoro». Dopo una serie di incontri, a partire dalla primavera del 1974, Wilson e Glass elaborano quella che sarà la struttura generale dell’opera (il cui primo titolo – che nasce dalla suggestione di una vecchia foto dello scienziato su una spiaggia – era stato stabilito in Einstein on the Beach on Wall Street ), articolata in quattro atti, nove scene e cinque Knee Plays – interludi di raccordo – dove il termine knee (ginocchio in inglese) rimanda appunto alla funzione anatomica di giuntura di questa articolazione. Se pure i suoi elementi, che vanno dalla musica strumentale a quella vocale, dalla danza (con le originarie coreografie di Andrew De Groat) alla scenografia e alla regia, sono quelli per tradizione appartenenti all’opera classica (e gli stessi Knee Plays , che precedono i singoli atti, ripropongono sostanzialmente la tradizione settecentesca degli ‘intermezzi’), come avveniva nei precedenti lavori di Wilson, non è rinvenibile alcuna trama narrativa propriamente detta.

Se testi e immagini sono percorsi da riferimenti – tra loro irrelati – alla cronaca americana di quegli anni (come ad esempio al processo a Patricia Hearts), alla canzone Mr. Bojangles , ai Beatles, ecc., la ‘storia’ è di fatto sostituita da una progressione di eventi, di immagini o metafore visuali che si sviluppano in maniera analoga a una partitura musicale (o, come ha sostenuto Wilson, alla costruzione di un edificio) dove il linguaggio non è un contenuto bensì uno strumento espressivo elaborato sulla base di una struttura caratterizzata da una evidente simmetria e che risponde a semplici associazioni figurative. Quel che avviene in scena non è legato a un discorso di tipo letterario, ma a un insieme di pure relazioni spazio-temporali, attraverso le quali è la struttura stessa, attraverso un meccanismo linguistico autoreferenziale, a diventare soggetto. Punto di partenza non sono né il libretto né la partitura (elaborata a posteriori rispetto alla definizione dello schema drammaturgico), ma una sequenza di spazi scenici costruiti attorno al personaggio, privi di una connessione, se non in via eventualmente metaforica, con la sua reale biografia (così com’era avvenuto nei precedenti ‘ritratti’ teatrali da Wilson dedicati a Freud, a Stalin e alla regina Vittoria). Questi spazi scenici sono definiti nel tempo da una suddivisione ritmica la cui durata corrisponde alla durata globale dello spettacolo: le quasi cinque ore dell’ Einstein sono da Glass e Wilson metricamente scandite in base all’alternarsi e all’accoppiarsi dei numeri 1-2-3. Così i primi tre atti comprendono ciascuno due scene e ripetono due volte tre elementi costituiti da tre differenti tipi di ambiente-immagine, con alternanze e combinazioni di interni ed esterni: il Treno (1), il Processo (2) e il Campo-Astronave (3) nell’ordine 1-2 (atto primo), 3-1 (atto secondo), 2-3 (atto terzo), che in successione formano la semplice serie 1-2-3/1-2-3. Nelle tre scene dell’ultimo atto ricompaiono gli stessi tre elementi-ambienti, ma semplificati, resi più astratti. I Knee Plays scandiscono inesorabilmente la successione degli atti, assolvendo a una funzione connettiva, che conferisce coesione al tutto. Questo, in breve, lo schema dell’opera: Knee Play 1 , atto primo (1. Treno I, 2. Processo I); Knee Play 2 ; atto secondo (3. Campo-astronave I,1. Treno II); Knee Play 3 , atto terzo (2. Processo II, 3. Campo-astronave II); Knee Play 4 ; atto quarto (1. Edificio del treno, 2. Letto del processo, 3. Astronave – interno della precedente astronave); Knee Play 5 . Wilson ha strutturato l’ Einstein anche come una sequenza ripetitiva di tre differenti tipi di angolazione o piani pittorici: i Knee Plays sono eseguiti di fronte al sipario (mentre viene effettuato il cambio delle scene), in uno spazio quindi prossimo al pubblico che può essere concepito nei termini di ‘ritratto’ (oggetti e persone in primo piano), i ‘set’ per le scene in cui compare l’immagine del treno, di un edificio, di un’aula di tribunale e di una cella di prigione sono collocati a una profondità di campo intermedia, analoga a una ‘natura morta’, mentre le scene che forniscono il massimo di spazio disponibile sul palcoscenico per i danzatori – il campo aperto e l’immenso interno dell’astronave dell’apoteosi finale – hanno la profondità di un ‘paesaggio’. Ai tre settori spazialmente distinti corrispondono, ancora, tre gradi di intensità espressiva nel gesto, nel linguaggio e nella musica: da un’intensità minima detta di ‘pelle’ (lentezza, pacatezza) si passa a un’intensità media di ‘carne’ e a un’esasperazione espressiva detta ‘ossa’. È in funzione di queste coordinate spazio-temporali che vengono sviluppate le successive fasi di composizione: musica, testo, danza e regia. Ma in queste fasi si assiste a una sorta di capovolgimento, di inversione di approccio o di metodo: tanto è rigorosa e inesorabilmente rigida la struttura, altrettanto spontanei e aleatori sono i contenuti (che vanno a riempire, quasi in funzione di variabili, la griglia ottenuta), elaborati collettivamente durante il lungo periodo di gestazione dello spettacolo e spesso, come nel caso dei testi o dei ‘gesti’ che caratterizzano ciascun personaggio, interamente affidati all’inventiva degli stessi attori. Il tentativo di Wilson, la sua ‘premessa fondamentale’ – come ha scritto Vicky Alliata nel libretto di sala della prima rappresentazione – è quella di «ricomporre sul palcoscenico tutto ciò che la vita sistematicamente frantuma… nell’inesorabile costruzione di una saga dei tempi moderni in cui non esistono gli eroi ma nemmeno i vinti».

Se pure alla figura di Einstein si allude nel corso dello spettacolo, anche con semplicissimi indizi (ciascun ‘performer’ indossa bretelle, larghi calzoni grigi e scarpe da tennis) o con la sua stessa presenza in palcoscenico, impersonata dal violinista, si può dire che è la struttura spaziale-temporale del lavoro concepita da Wilson a essere compenetrata dalle teorie relativistiche di questo ‘eroe’ del Novecento. Il lavoro rende percepibile nel suo divenire, e nella stessa sua interminabile lunghezza, allo spettatore (appellandosi più alla sua immaginazione che alla sua mente), quel radicale mutamento nella percezione – soprattutto la percezione del tempo – che ha accompagnato il nostro sviluppo tecnologico, dalla locomotiva all’astronave (le immagini con cui – rispettivamente – si apre e conclude l’opera). La presenza di Einstein nell’opera è dunque, come sottolinea lo stesso Glass, di carattere «estremamente astratto». Il titolo «forniva solo lo spunto su cui costruire una sterminata opera teatrale-visiva. Era come un centro catalizzatore intorno al quale l’opera ruotava, senza però doverlo necessariamente assumere come suo argomento primario. Questa libertà conferiva alle sue opere un grande respiro e una straordinaria ricchezza». Einstein on the Beach si configura fin dall’inizio come un’ opera ritratto (così come in seguito accadrà con Satyagraha , l’opera di Glass su Gandhi): «il ritratto di Einstein che noi costruivamo a mano a mano sulla scena veniva a sostituire l’idea della trama, della storia, insomma dello sviluppo dell’azione – con tutti gli annessi e connessi – del teatro tradizionale. Non solo: questo ritratto di Einstein era anche una visione poetica . Gli eventi o i riferimenti cronologici potevano essere inclusi nella sequenza dei movimenti e delle immagini, o nei testi recitati e cantati; e di fatto lo furono. Però non era l’obiettivo primario dell’opera convogliare questo tipo di informazione» Da qui la scelta di Einstein come protagonista, «perché tutti sapevano chi era» e così «in un certo senso era superfluo raccontarne la storia, perché chiunque fosse venuto a vedere il nostro Einstein si sarebbe portato dietro, a teatro, la ‘sua’ storia del personaggio». La struttura drammatica generale dell’opera non è quindi costituita dal succedersi di vicende, ma piuttosto dalla giustapposizione di ‘espedienti teatrali’, spesso tra loro contrastanti, che conferiscono un preciso ritmo al tutto, senza preoccupazione alcuna per il ‘significato’, la coerenza narrativa o la fedeltà storica, tutte nozioni estranee allo spirito dell’opera, che vive di coesione visuale e ritmica, con un’attenzione specifica (e senza precedenti) per i rapporti tra tempo e immagine, spazio e movimento: in tal senso neppure la musica avrà una funzione prioritaria o privilegiata.

La musica di Glass esemplifica – specularmente – quella che abbiamo definito come la struttura autoreferenziale dell’opera, in quanto anche qui il materiale, il ‘discorso’ musicale è costituito dai processi compositivi utilizzati da Glass (i processi – a differenza che nel serialismo – sono ‘soggetto’ anziché ‘fonte’ della musica). La struttura tematica della musica segue da vicino, si modella sulla complessa struttura elaborata da Wilson, prevedendo – analogamente al ‘trattamento’ drammaturgico delle immagini – un cambiamento di scala. Ad esempio, nelle parole di Glass, la musica «cominciava con l’ ensemble al completo e il coro, continuava con un coro a cappella e chiudeva con l’assolo del violino». Fino alla fine degli anni Sessanta – soprattutto a seguito del suo incontro con Ravi Shankar e Alla Rakha – la musica di Glass scritta per il suo ensemble riflette la sua preoccupazione di sviluppare tecniche, come quelle da lui denominate di processo additivo e struttura ciclica, che espandessero un motivo ritmico dentro la struttura generale della composizione. La successiva, rinnovata attenzione per lo sviluppo del discorso armonico, che si focalizza soprattutto su modulazione e cadenza, combinate con le precedenti tecniche della struttura ritmica (catalogate nella ponderosa Music in Twelve Parts , scritta tra il 1971 e il ’74), costituisce la base della sua successiva composizione per l’ ensembleAnother Look at Harmony , 1975 – articolata in due parti che diventeranno rispettivamente l’inizio di Einstein on the Beach (I,1), e la musica del primo balletto (Dance 1). L’ Einstein ha indubbiamente consentito alle idee musicali di Glass di trovare espressione in una forma più ampia e caratterizzata da strutture di grande complessità, nelle quali il semplice materiale di base viene continuamente trasformato dando luogo a situazioni in perenne divenire, con una sorta di effetto caleidoscopico che può ricordare, a tratti (in virtù dell’uso innovativo della cadenza e della variazione, sulle quali si innestano i processi additivi) certa musica barocca. La staticità della musica è apparente, perché il movimento armonico vi è invece essenziale e conferisce alla musica una singolare espressività, e segna una brusca rottura con quanto Glass aveva scritto fino ad allora: ovvero, come afferma egli stesso «musiche molto ricche sotto il profilo ritmico, ma statiche sul piano armonico».

Il compositore inizia a lavorare alla partitura, seguendo l’ordine di successione delle scene (solamente i Knee Plays verranno composti alla fine), nella primavera del 1975, e la termina già nel novembre dello stesso anno. Per facilitare la memorizzazione da parte del coro della sterminata partitura, Glass, durante le prove, cominciò a usare semplici numeri e note solfeggiate, che alla fine diventarono il definitivo testo vocale. Alla musica si sovrappongono poi i testi recitati di Christopher Knowles, a cui si aggiunsero testi degli attori- performers Lucinda Childs e Samuel M. Johnson (Il vecchio giudice, I,2 e Il conducente d’autobus, Knee Play 5 ). Le parti musicali dell’ Einstein on the Beach sono tagliate su misura per l’ ensemble , costituito da due organi elettrici, tre fiati (con obbligo di sassofoni, flauto e clarinetto basso) e un soprano e un tenore solista. Il peso della parte vocale ricade invece su un coro da camera di sedici voci miste. L’esecuzione delle varie parti dell’opera viene da Glass variamente distribuita tra più gruppi di musicisti, che si alternano (i Knee Plays , ad esempio impegnano solo il coro e il violino – ovvero Einstein, a cui è affidata l’esposizione del materiale tematico della partitura – sostenuti talvolta dall’organo elettrico) e quindi solo di tanto in tanto l’orchestra suona al completo, nei pochi, grandi momenti di tutti (come le scene del Treno, della Danza e dell’Astronave).

Einstein on the Beach rappresenta un lavoro irripetibile, nato dalla collaborazione, dal sodalizio di alcuni tra i più radicali innovatori del linguaggio artistico (non solo strettamente musicale o teatrale) degli anni Sessanta e Settanta. È un’opera che inventa il proprio contesto, la propria forma, il proprio linguaggio (che nasce dalla sovrapposizione, dalla simultaneità di linguaggi diversi: la musica, la narrazione verbale, l’immagine, la danza, ecc.), in una sorta di ‘teatro musicale dell’avvenire’, in realtà profondamente radicato nella contemporaneità, e volutamente privo di pesanti ed effimere zavorre teoriche e/o ideologiche. L’ Einstein apre una nuova strada, determinando un ‘grado zero’, un punto d’avvio imprescindibile per tutti quanti hanno in seguito esplorato le possibilità del teatro musicale (fino ad allora ritenuto quasi impraticabile dalle ‘avanguardie’ musicali europee che facevano riferimento a Darmstadt e al linguaggio seriale). Inoltre l’ Einstein infrange, di fatto, tutte le regole, le consuetudini dell’opera, che si erano stratificate in secoli di storia: sia per quanto riguarda la scrittura e la drammaturgia, sia – soprattutto – per le modalità di ricezione e di fruizione da parte del pubblico.

Type:

Opera in quattro atti

Author:

Philip Glass (1937-)

Subject:

testi propri, di Christopher Knowles, Lucinda Childs e Samuel M. Johnson

First:

Festival di Avignone, 25 luglio 1976

Cast:

Signature:

f.ma.

Vuoi ricevere Mam-e direttamente nella tua casella di posta? Iscriviti alla Newsletter, ti manderemo un’email a settimana con il meglio del nostro Magazine.

CLICCA QUI PER SAPERNE DI PIÙ!