la fanciulla del west
Dizionario Opera

Fanciulla del West, La

La Fanciulla del West (1910), Giacomo Puccini

Tra il fiasco scaligero di Madama Butterfly e la sua riabilitazione a Brescia (1904) e La fanciulla del West, andata in scena a New York nel 1910 con Enrico Caruso, Emmy Destinn, Pasquale Amato e Arturo Toscanini sul podio, corrono sei anni. Questo periodo è in gran parte impiegato da Puccini, stufo delle «Bohème, Butterfly e comp.», nella ricerca di un libretto nuovo e originale. Il secolo è appena scaduto, Debussy e Strauss hanno inaugurato il Novecento con Pelléas et Mélisande e Salome. Anche Puccini, erede riconosciuto di Verdi, acclamato in tutti i teatri del mondo, avverte «che è necessario rinnovarsi o morire», poiché «l’armonia oggi e l’orchestra non sono le stesse».

Da questa «aspirazione verso un profondo rinnovamento di tutto il suo stile», verso «una forma più alta di poesia umana», deriva la faticosa ricerca di un nuovo libretto; ma dopo tante peregrinazioni (Parisina e La rosa di Cipro di D’Annunzio, Tartarine di Daudet, e poi Maeterlinck, Tolstoj, Mérimée, addirittura la Divina commedia) la scelta incredibilmente cade su una pièce di forti contrasti passionali e d’avventura come The Girl of the Golden West di David Belasco. Così, «ancora attratto verso una forma di realismo drammatico» rimproveratogli da D’Annunzio, Puccini tornava a rivolgersi all’abile teatrante, sorta di Sardou americano, cui doveva il successo di Butterfly.

I protagonisti e l’ambiente

Come già in Tosca , La fanciulla del West riproponeva uno scontro all’interno di un triangolo amoroso. Conferma quindi un credo irrinunciabile della poetica pucciniana: «Non si può sortire da un soggetto passionale, contornato pure da grandi avvenimenti, di folla, di moto, ma ciò che deve campeggiare è la grande passione, la vera, la sublime, la sensuale». Pure, lo spazio concesso alla pittura d’ambiente, ai tanti piccoli tipi umani che circondano i protagonisti, ci dice che il mondo dei minatori all’epoca della febbre dell’oro ha affascinato profondamente Puccini. Tanto da attribuire loro un peso drammatico, una funzione corale protagonistica e non di contorno.

Sono questi uomini che dominano l’azione con i loro sentimenti schietti e le reazioni immediate ed elementari, presenti fisicamente in tutti e tre gli atti. È il loro strano rapporto con la fanciulla (amica, sorella, madre, oggetto d’amore) il nocciolo emotivo dell’opera stessa, assai più della rivalità fra lo sceriffo Rance e Johnson.

Come era avvenuto per il Giappone di Butterfly , Puccini ‘ricostruisce’ l’ambiente utilizzando materiale folklorico americano. Melodie autentiche come quella di Jake Wallace “Che faranno i vecchi miei“, il canto ‘Dooda dooda day’, danze esotiche (ragtime, cake-walk , bolero), una ninna-nanna pellerossa; e non lascia cadere nessun suggerimento paesaggistico del libretto, come la tempesta di neve (al secondo atto) per la quale è previsto l’impiego della ‘macchina del vento’; dipinge la raggelata alba californiana all’inizio del terzo atto, inventa una lunga melodia ‘da carovana’ quando si parla della messicana Nina Micheltorena, e altri frammenti molto ‘Golden West’ per l’arrivo della posta (atto primo) e per l’inseguimento a cavallo dei cowboys (atto terzo). Episodi di grande autenticità e suggestione, che preannunciano con esattezza il tipico stile dei commenti musicali – nel 1910 ancora da nascere – dei film western americani.

Atto primo

In un campo di minatori della California. Siamo alla ‘Polka’, la taverna gestita da un singolare e forte personaggio, Minnie, di cui tutti sono innamorati ma che «il primo bacio deve darlo ancora»; attendendo la sua venuta, gli uomini giocano a carte, sono presi dalla malinconia (“Che faranno i vecchi miei“), e lo sceriffo Rance e Sonora si azzuffano per amore di Minnie. La fanciulla arriva e si mette a leggere la Bibbia ai minatori (“Dove eravamo?“), commentando che «non v’è al mondo peccatore/ cui non s’apra una via di redenzione».

Finita la lezione, Rance dichiara a Minnie di essere innamorato di lei (“Minnie, dalla mia casa son partito“). Lei risponde elusiva, riferendosi all’idea d’amore che si è fatta vivendo con i suoi genitori (“Laggiù nel Soledad“). Giunge uno straniero, lo sconosciuto Dick Johnson che – secondo le leggi del campo – non potrebbe entrare; ma la fanciulla garantisce per lui, riconoscendolo come l’uomo che ha incontrato un giorno sul sentiero di Monterey e ha subito amato. Mentre Minnie e Johnson ballano, i minatori lasciano la taverna per inseguire il bandito Ramerrez; rimasti soli, i due si dichiarano il loro amore (“Quello che tacete“) e la fanciulla invita l’uomo nella sua capanna.

Atto secondo

La grande scena d’amore fra Johnson e Minnie è interrotta dall’arrivo di Rance e dei ragazzi del campo. Questi avvertono Minnie che lo straniero non è altri che il bandito Ramerrez. Minnie, sdegnata, caccia fuori l’uomo, che viene ferito e si rifugia ancora nella capanna; la donna per amore lo nasconde nel solaio. Rientra lo sceriffo, e fruga in ogni angolo senza trovarlo; poi, una goccia di sangue che cade dall’alto rivela la sua presenza. Minnie avanza allora una proposta disperata: giocare una partita a poker; se Rance la vincerà, avrà la donna e la vita del bandito. Ma Minnie bara, e ottiene la salvezza per il suo uomo.

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Atto terzo

I minatori, ancora all’inseguimento di Ramerrez l’hanno catturato e si accingono a impiccarlo. Prima di morire, dichiarando di essere stato «ladro, ma assassino mai», egli rivolge un saluto a Minnie (“Ch’ella mi creda libero e lontano“); ed ella sopraggiunge, e chiede la vita di quell’uomo ai minatori, ricordando gli affanni e i disagi divisi con loro (“Anche tu lo vorrai“). Commossi, gli uomini concedono il perdono a Johnson, che si allontana con Minnie per vivere una nuova vita onesta e serena.

Il Puccini che con Madama Butterfly aveva offerto uno dei più straordinari saggi di ‘psicoanalisi in musica’, ne La Fanciulla del West sembra aver messo da parte le sue qualità di introspezione. I sentimenti e le reazioni dei tre protagonisti appaiono infatti molto elementari e immediati; ma si dovrà notare una certa dose di umanità (diversamente da uno Scarpia) concessa anche al brutale sceriffo nel suo autoritratto “Minnie, dalla mia casa“. La figura di Johnson interpreta la favola lieta del peccatore che si redime, del self-made man, forse dell’emigrante, che si conquista il successo e un nuovo stato sociale. Un tipo umano che è un vero emblema nella cultura degli Stati Uniti, nati dal contributo di uomini di ogni origine che hanno costruito una grande nazione.

Appare inevitabile che Johnson canti come gli altri amorosi pucciniani, con i toni appassionati e malinconici di un bravo giovane che è divenuto bandito per disperazione («Or son sei mesi che mio padre morì»).

Innovativa presenza femminile

Accanto ai due rivali, la figura più nuova è dunque quella femminile. In essa un senso giovanile e arditoOh se sapeste come il vivere è allegro») s’intreccia con una saggezza di sorella maggiore (lettura della Bibbia), ma anche con una passionalità forte e immediata e con un coraggio smaliziato (la partita a carte truccata). Nessuna delle donne pucciniane raccoglie tanti contraddittori atteggiamenti, e nessuna canta con tanto languore e irruenta tensione, toccando perfino il do e il do diesis acuto. La semplicità di questa tipologia umana e la drammaturgia elementare dell’opera si trovano però in una certa contraddizione con l’inventiva musicale. Questa, rispetto al passato, non si distende più in vere e proprie romanze, ma predilige il dialogo e l’assolo in stile arioso, che non può essere più estrapolato come un pezzo chiuso.

Se si esclude il celebre addio di Johnson “Ch’ella mi creda“, tutti gli episodi segnalati sono dei cantabili all’interno di scene in stile di conversazione. In queste, l’esclamazione, il grido, il canto, il parlato, persino i rumori, gli spari si intrecciano e alternano liberamente; e si costruiscono in forme irregolari, assai diverse tra loro, utilizzando frasi melodiche che non sempre hanno la pregnanza e la caratterizzazione dei precedenti capolavori.

Partiture raffinate

Puccini, facendo tesoro della conoscenza della musica di Debussy, ma anche dei russi e di Strauss, compone infatti una delle sue partiture più raffinate sul piano armonico. Impiega scale esatonali, forti dissonanze, passaggi cromatici e, una varietà di ritmi e della ricerca timbrica (è noto che Ravel possedeva una partitura de La Fanciulla del West puntualmente annotata). È un’opera nella quale forse «protagonista è l’orchestra» (Gavazzeni), che elabora con straordinaria eleganza e varietà di colori degli spunti, magari di poche note, ma che divengono incisivi come veri emblemi, intrecciati in un continuum sinfonico che molto deve alla tecnica wagneriana del Leitmotiv.

Per valutare la genialità di certe soluzioni, basterebbe considerare la scena della partita a carte. È un grande coup de théâtre risolto con la rinuncia al canto (i personaggi parlano) e con il sostegno ossessivo del solo rullo di timpani. Mirando a raffinare e consolidare la presenza dell’orchestra, Puccini può curarsi assai meno che in passato della rispondenza fra pensiero musicale e testo letterario. Può accontentarsi – senza intervenire in modo puntiglioso – dei versi modesti confezionati dai librettisti Civinini e Zangarini, e di una vicenda improbabile, in cui Minnie pensa di punire i boys minacciandoli «non farò più scuola» e, angelica com’è, invita uno sconosciuto nella sua casa di notte, dice le sue preghiere prima di addormentarsi nella stanza dove dorme con il bandito; eppure non esita a barare come una consumata commediante quando è in pericolo la vita del suo uomo.

E che dire poi di questi incredibili minatori che si azzuffano per un niente, e leggono la Bibbia in mezzo a whisky e pistole, che pensano sempre alla mamma e alle sorelle, che piangono come bambini al canto di Jake Wallace o quando Minnie li supplica in nome di «una suprema verità d’amore»?

Un’opera americana

Allettato dalla prospettiva di consistenti vantaggi economici, Puccini destinò La Fanciulla del West al pubblico americano. Mentre, con un occhio rivolto alle esigenze dell’ambiente europeo, portava a esiti raffinatissimi la sua scrittura orchestrale, al tempo stesso componeva la sua prima e ultima opera naïve. Prende a protagoniste delle «anime rudi e buone», credendo nel loro candore e prospettando per i due innamorati un inevitabile happy ending. Ma, in mezzo alla semplice umanità di questi cowboys, l’amore (quello vero, quello sensuale) torna a risuonare come violenza imprevista, come evento crudele e lacerante, incarnando in modo nevrotico il principio della separazione freudiana dal grembo materno.

Questi innamorati rompono un preesistente equilibrio di affetti (tra Minnie e i minatori) e la conclusione, nonostante il lieto fine di facciata, sarà inevitabilmente un doloroso «stillicidio di addii» (Mariani). Il generoso impegno del Puccini maturo – riuscire semplice e ingenuo nel celebrare una positiva storia d’amore e di redenzione – naufraga nelle ultime battute dei minatori, che chiudono l’opera pensando a Minnie: «mai più ritornerà»; l’amore, ancora una volta, è una colpa che lascia desolazione intorno a sé, e l’andarsene di Minnie e Johnson, cantando “Addio, mia dolce terra”, risuona amaro come le morti di Mimì, Tosca e Butterfly.

Type:

Opera in tre atti

Author:

Giacomo Puccini (1858-1924)

Subject:

libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco

First:

New York, Metropolitan, 10 dicembre 1910

Cast:

Minnie (S), Jack Rance (Bar), Dick Johnson/ Ramerrez (T), Nick (T), Ashby (B), Sonora (Bar), Trin (T), Sid (Bar), Bello (Bar), Harry (T), Joe (T), Happy (Bar), Larkens (B), Billy (B), Wowkle (Ms), Jake Wallace (Bar), José Castro (B), un postiglione

Signature:

c.o.

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