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Fenomeno Kane

La giovane drammaturga inglese è ormai un’autrice di culto. Eppure vi sono gruppi che, prima della sua tragica morte, non l’avrebbero nemmeno presa in considerazione. Una riflessione di Renato Palazzi Che Sarah Kane sia stata in questi mesi rappresentata un po’ ovunque da gruppi di varia età e formazione non è in fondo sorprendente: già da viva l’autrice inglese era stata un «caso», sollecitando l’attenzione dei mass media per la violenza dei suoi testi, dividendo la critica e il pubblico, assurgendo a emblema di una nuova generazione di «arrabbiati». È quindi naturale che la sua fama si sia amplificata dopo il tragico suicidio del ’99, che – come accade per ogni artista morto prematuramente – l’ha consegnata a soli venticinque anni a una dimensione mitica in cui si sovrappongono i percorsi creativi e le angosce personali.
Non c’è, tutto sommato, nulla di strano neppure nel fatto che questa capacità di entrare come un simbolo doloroso nell’immaginario collettivo si stia manifestando solo ora: l’assimilazione di un evento del genere ha necessariamente tempi lunghi, prescinde dall’immediatezza, dalla nuda brutalità della cronaca, arriva attraverso il metabolismo degli anni a mettere progressivamente in luce un proprio atroce significato. Umano? Letterario? Forse è soprattutto l’intrecciarsi dei due elementi a fare della Kane – come d’altronde era avvenuto per Pavese – un autentico punto di riferimento generazionale.
A suscitare qualche impopolare interrogativo (ma il compito di chi segue con occhio professionale il teatro dovrebbe sempre essere quello di porsi degli interrogativi impopolari) è semmai il fatto che – al di là di una seguace della prima ora come Barbara Nativi, cui si deve il merito di averla affrontata per la prima volta sui palcoscenici italiani, e di averne tradotto le opere – i suoi testi siano oggi allestiti da registi e compagnie che prima della morte non avvertivano probabilmente particolari affinità con quel linguaggio truce e concretissimo, e forse non avevano mai preso in considerazione l’ipotesi di portarlo alla ribalta.
Il teatro è fatto ovviamente soprattutto di emozioni, ed entrare nel merito di queste, provare a soppesarne la qualità e i risvolti nell’intento di discernere il facile effetto dall’urgenza di sentimenti reali è un esercizio chirurgico rischioso e incontrollabile, oltre che praticamente impossibile da praticare. Anche dare un valore alle mode culturali di una certa fase storica è un tentativo gratuito e destinato a scarso esito: dal momento che le mode comunque a un dato punto di per sé si innescano, il teatro dal canto suo vi si adatta, al di là di qualunque tentativo di valutarli e interpretarli.
E tuttavia non può sfuggire il fatto che della Kane, a parte Phedra’s love realizzato di recente dall’Accademia degli Artefatti col gruppo parmigiano Numeriprimi, e a parte Fame (Crave) che Barbara Nativi propone ormai da un paio d’anni, non vengano oggi presi in considerazione i drammi che le hanno dato fama e risonanza internazionale – quelle vicende ritagliate in una quotidianità brutale e sanguinosa – ma quasi esclusivamente gli esiti della fase conclusiva della sua produzione creativa, in un’epoca già segnata dal manifestarsi della depressione che l’avrebbe spinta a togliersi la vita.
Dei numerosi allestimenti di copioni della Kane in scena in questa stagione, la maggior parte riguarda non a caso, in modo più o meno diretto, proprio 4.48 psycosis, l’ultimo scritto lasciato come un testamento dall’autrice poco prima della morte: alla «psicosi delle 4.48», che statisticamente è l’ora della notte in cui più spesso avvengono i suicidi, si sono rivolti direttamente l’attrice napoletana Monica Nappo e i «Cantieri Teatrali Koreja» con Azioni suicide della regista Simona Gonella. Ad esso ha attinto il Teatro Aperto nella Sinfonia per corpi soli, e Pippo Delbono ne ha fatto la partitura verbale di Gente di plastica.
Ho visto solo alcuni di questi spettacoli, e comunque non è questa l’occasione per esprimere giudizi sulla qualità delle singole messinscene. Non intendo neanche azzardare una valutazione per così dire etica sulla scelta dei vari interpreti che per legittime ragioni personali hanno deciso di cimentarsi con questo documento atroce e straziante. Resta il fatto che una simile insistenza su un testo che è un’espressione di dolore puro, senza una vera struttura, senza una solida e meditata forma espressiva lascia il dubbio che il fenomeno nel suo insieme non sia esente da una sorta di involontaria strumentalizzazione.
Non vorrei passare da cinico, ma la differenza è tutta nella distinzione sugli obiettivi estetici che il testo intende o meno perseguire. Nella sua natura di pura confessione, di lacerante sfogo di una sofferenza psichica e di un disagio esistenziale, 4.48 psychosis è la testimonianza – toccante, spietata, ma senza nessuna ulteriore valenza metaforica – di una condizione fondamentalmente patologica. Negare questo aspetto, leggervi una qualche stravolta risonanza poetica come se si trattasse di una semplice perturbazione dell’anima significa non riconoscere alla depressione il suo sostanziale statuto di malattia.
Anche le pièce di Thomas Bernhard sono il riflesso di un fondamentale stato depressivo, anche i suoi personaggi parlano e parlano di qualunque cosa unicamente per riempire il vuoto in cui sprofondano, ma tutto ciò si sublima e quasi si esorcizza in un’altissima sfera letteraria: qui, invece, è proprio la letteratura che perde tragicamente la sua battaglia coi fantasmi della mente. Sostenere che la Kane sia una grande scrittrice del nostro tempo è un punto di vista opinabile ma del tutto lecito. Sostenere che sia grande proprio in virtù di 4.48 psychosis sembra un macabro compiacimento, e anche una forzatura un po’ morbosa.
La messa a nudo dell’anima dell’autrice in questo suo estremo messaggio è sconquassante, cruda, di una sincerità senza pari. Vorrei dire di più: dal punto di vista meramente introspettivo, è una scheggia di vita di un’intensità che non ha probabilmente l’uguale. Ma è lo sfogo di una personalità profondamente disturbata, sola di fronte alla fine. Se ne può senza dubbio ricavare uno spettacolo di grande forza emotiva: ma volervi leggere – come alcuni fanno – qualcosa di più assoluto e universale, qualcosa che vada oltre il dato di quell’intollerabile disagio interiore rischia di essere una mistificazione critica.
Non vorrei essere frainteso: non ritengo che rappresentare 4.48 psychosis, ponendo l’autentico suicidio della Kane al centro di una finzione scenica, implichi una mancanza di pietà o rispetto. Anzi, credo che in quest’atto vi sia amore e intima adesione. Però suscitare commozione con l’esibizione di una disperazione così reale e irreparabile è scontato, quasi una scorciatoia. È l’equivalente verbale di quelle esperienze teatrali che mostrano corpi mutilati, deformità, handicappati veri anziché attori impegnati in una parte: le motivazioni artistiche sono quasi sempre nobili, ma resta in esse una sottile ambiguità di fondo. (30 giugno 2003)
Nella foto, Sarah Kane

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