Dizionario Opera

Fida ninfa, La

La genesi della Fida ninfa è strettamente intrecciata alle vicende che accompagnarono la nascita del Teatro Filarmonico di Verona: i membri dell’Accademia Filarmonica avevano affidato il progetto della nuova sala a Francesco Bibiena e i lavori, iniziati nel 1715, furono terminati nel 1729. Per l’inaugurazione Scipione Maffei, che era uno degli accademici coinvolti nell’impresa, riprese tra le sue opere giovanili una pastorale, La fida ninfa , affidando al bolognese Giuseppe Maria Orlandini la composizione della musica e allo stesso Francesco Bibiena il disegno delle scene. Nel marzo 1730, però, le autorità veneziane vietarono lo spettacolo nel timore che, venendo a Verona, gli ufficiali stranieri di stanza nelle vicine città imperiali si rendessero conto delle limitate capacità militari della Serenissima sulla terraferma. Rimossi gli ostacoli politico-burocratici, il progetto dell’inaugurazione venne ripreso due anni dopo e, complice un nuovo incarico di Orlandini a Firenze, per la composizione della musica venne chiamato Antonio Vivaldi, che si trovava quindi a lavorare su un libretto (che Maffei nel frattempo aveva pubblicato) e scene già esistenti. Il testo del dramma, la cui prima versione risale al 1694 (e quindi di epoca precedente a quella della riforma di Zeno), risente del clima razionalistico della prima Arcadia: è una favola pastorale lineare, con sei personaggi le cui vicende si intrecciano nel gioco di innamoramenti, equivoci e agnizione finale, con il suggello dell’intervento di Giunone ed Eolo. L’opera fu rappresentata anche con il titolo Il giorno felice (Vienna 1737). La partitura manoscritta, una delle circa venti vivaldiane giunte sino a noi, è conservata nella Biblioteca nazionale universitaria di Torino e la sua pubblicazione a cura di Raffaello Monterosso, nel 1964, ha suscitato nuovo interesse per il Vivaldi operista. Tra gli allestimenti moderni si ricordano quelli di Bruxelles, Parigi e Nancy sotto la direzione di Angelo Ephrikian (1958), e nel 1962 alla Piccola Scala di Milano nell’edizione di Monterosso, diretta da Nino Sonzogno con la regia di Franco Enriquez.

Narete, pastore di Sciro, e le sue due figlie Licori ed Elpina sono stati rapiti da Oralto, corsaro e signore dell’isola di Nasso. Ancora bambina, la bella Licori è stata promessa a Osmino, che però è stato rapito dai soldati traci. Nonostante la lontananza, Licori lo ama e gli è fedele (da qui il titolo dell’opera), ma non lo riconosce nelle vesti di Morasto, luogotenente del corsaro, il quale invece ha subito riconosciuto i nuovi arrivati ma preferisce non rivelare la propria identità. Un altro Osmino, che si scoprirà fratello del primo, vive prigioniero a Nasso: Elpina se ne è innamorata mentre egli si è invaghito di Licori; quando però Elpina scopre il suo nome, ne dà notizia alla sorella, che crede di riconoscere il primo amore e gli dimostra il proprio affetto. Morasto li vede insieme e ne rimane sconvolto. Anche Oralto è invaghito della fanciulla e la sua corte si fa sempre più pressante. Su consiglio del padre, Licori si nasconde in una grotta, ma inciampando perde un velo nel ruscello. Narete lo mostra a Oralto, dicendo che la figlia si è gettata in mare. Partito il corsaro, Morasto rivela la sua identità rimproverando a Licori di non essergli stato fedele, ma Narete chiarisce che Osmino non è altri che Tirsi, fratello di Osmino/Morasto. Morasto e Licori si rappacificano e i cinque decidono di fuggire, nonostante le minacce di tempesta. L’intervento di Eolo richiesto da Giunone placa i venti e salva i pastori, i cui «casti amori» saranno favoleggiati «su nobile scena armonica e novella», appunto il Teatro Filarmonico.

Il libretto di Maffei non presenta eventi tragici: anche l’apparente suicidio di Licori perde drammaticità poiché lo spettatore è subito informato del fatto che la ninfa non è morta; anzi, l’episodio ha un risvolto comico nel racconto di Elpina, che è scoppiata a ridere nel veder scivolare in acqua la sorella. Se in generale all’epoca di Vivaldi l’interesse del pubblico e dei musicisti si concentrava sulle arie, mentre i recitativi venivano scritti in modo affrettato e convenzionale, in quest’opera il compositore non si abbandona alla routine e nei recitativi secchi riesce a mantenere una certa varietà ed espressività melodica aderendo al significato del testo. L’orchestra è prevalentemente limitata agli archi e al basso continuo; a questi si aggiungono trombe e tamburo nell’aria di sortita di Oralto e nel finale del terzo atto, mentre sono utilizzati i corni nella tempesta marina, episodio strumentale descrittivo nel terzo atto, e due flauti nell’aria di Elpina “Cento donzelle” (III,1). Le arie “Alma oppressa da sorte crudele” di Licori e “Destin avaro” di Morasto, in cui la melodia alterna momenti di abbandono lirico al virtuosismo ‘violinistico’ di incalzanti progressioni di semicrome, sono una testimonianza del complesso rapporto tra musica strumentale e musica operistica nella produzione vivaldiana.

Type:

Dramma per musica in tre atti

Author:

Antonio Vivaldi (1678-1741)

Subject:

libretto di Scipione Maffei

First:

Verona, Teatro Filarmonico, 6 gennaio 1732

Cast:

Licori (S), Elpina (A), Oralto (B), Morasto (S), Osmino (A), Narete (T), Giunone (A), Eolo (B)

Signature:

c.p.

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