Dizionario Opera

Four Saints in Three Acts

Thomson visse a Parigi (dove già aveva studiato con Nadia Boulanger) pressoché ininterrotamente dal 1925 al ’40, frequentando tra gli altri Darius Milhaud, Erik Satie, Jean Cocteau, André Gide, Pablo Picasso e Francis Scott Fitzgerald. Nell’autunno del 1926 conobbe Gertrude Stein, che accettò con entusiasmo di collaborare con lui alla stesura a due mani di un’opera, dopo che Thomson aveva già musicato alcuni suoi testi come songs , tra i quali Susie Asado e Capital Capitals . La Stein completò il libretto di Four Saints nel giugno del ’27, mentre Thomson terminò la versione pianistica nell’anno successivo. Al di là della formazione europea di Thomson, è possibile affermare che Four Saints in Three Acts rappresenti la prima vera opera ‘americana’. Già Aaron Copland aveva espresso il «forte desiderio» di «un’opera veramente americana» e, riferendosi a Thomson e a Marc Blitzstein (che nel 1937 scrisse testo e musica per l’opera The Cradle Will Rock ), scriveva di non essere sicuro che «ciò che essi scrivono possa essere chiamato opera, ma si tratta certamente di una forma di dramma musicale che assorbe in profondità e affronta direttamente quello che costituisce il problema principale nell’opera [americana], ossia il rapporto tra scrittura musicale e lingua inglese». Gertrud Stein scrisse il libretto, il cui ‘soggetto’ erano i santi spagnoli – soprattutto Santa Teresa d’Avila e Sant’Ignazio di Loyola – nell’epoca della controriforma, nella sua prosa inconfondibile (la cui forma letteraria è, nel caso di Four Saints , singolarmente vicina a quella di un masque elisabettiano), affatto libera da costrizioni sintattiche e svincolata da intenti narrativi o di plausibilità storica. La deliberata inconsistenza semantica del testo della Stein costringe Thomson a misurarsi con la pura componente fonetica del linguaggio, liberando inevitabilmente la sua musica da qualsiasi preoccupazione di pertinenza psicologica, emotiva o drammatica. Da parte sua Thomson era convinto che la musica a lui contemporanea fosse diventata inutilmente difficile e artificiosamente complessa, soprattutto per quanto concerne il rapporto con la parola. La scrittura musicale di Four Saints , di deliberata semplicità e leggerezza (che rimanda direttamente a quell’ideale di expression dépouilée perseguito da Satie), rende piacevolmente agevole la partecipazione a quel ‘paesaggio’ di immagini, metafore, rituali verbali creato dal libero testo della Stein, caratterizzato da una scrittura intesa assai più in termini spaziali, che di progressione temporale. «Tutti i santi che ho messo dentro – afferma la Stein – e ne ho messi un bel numero perché dopo tutto in un paesaggio vi sono moltissime cose, tutti i santi insieme costituirono il paesaggio. Questi santi erano il paesaggio ma anche il lavoro in sé è un paesaggio». Il tono surreale dell’opera è esemplificato dallo stesso titolo, la cui disinvolta inattendibilità anticipa la sistematica ‘impertinenza’ del lavoro dei due americani a Parigi. I santi infatti sono sedici e non quattro, mentre gli atti sono in realtà quattro e non tre. Al di là poi di un illegittimo sospetto di beffarda provocazione, cosa giustifica un cast integralmente di colore, in un opera dedicata a santi europei? In una lettera alla Stein, Thomson scrisse: «I miei cantanti neri, dopotutto, rappresentano un desiderio di natura puramente musicale, a causa del loro ritmo, del loro stile e soprattutto della loro dizione». L’intento primario, se mai, è proprio quello di affermare una radicale e orgogliosa indipendenza dalla tradizione europea, rimettendo in discussione la nozione stessa di ‘opera’, così come tramandata dalla tradizione occidentale: «L’intera opera – afferma Thomson – può essere concepita come un ‘rituale’, e più che un’opera vera e propria è ‘un oratorio su di un’opera’». Il suo background è «cattolico, barocco, estatico. (…) I santi sono pervasi da ispirazioni che provengono loro dall’alto, da canti e miracoli, da ordini e comandi e dalla disciplina del canto corale». Thomson adorava il rituale, non certo per adesione spirituale o confessionale, ma perché questo gli impediva di potersi concentrare in alcun modo sul proprio io, e lo spingeva ad allontanarsi radicalmente – e senza rimpianti – da qualsiasi pulsione emozionale o tentazione intimistica.

È praticamente impossibile riassumere in qualche modo la trama del lavoro, che è articolato in una sorta di ‘processione’ surrealistica di tableaux sui santi, i quali si limitano a fare ciò che comunemente si suppone i santi facciano: ricevere visitatori, mettersi in posa edificante per immagini di devozione, intrattenersi in discussioni sui problemi degli uomini e quelli dei santi, amare Cristo, gioire estaticamente, ecc.

Il culmine del libretto, che non presenta alcun climax nel senso più comune del termine, è costituito dalla visione, da parte di Sant’Ignazio, dell’Essere Puro. Nel famoso episodio “Pigeons on the grass – Alas” (Ahimè, i piccioni sull’erba), Thomson trova una indimenticabile e commovente immagine musicale per questa condizione di passiva mancanza di volontà: i piccioni (non la colomba) dello Spirito Santo si agitano accompagnati da un improbabile quanto irresistibile ritmo di boogie , un vero e proprio ostinato da complessino di strada dell’Esercito della Salvezza che viene ripetuto, identico a se stesso, con uno spirito squisitamente protominimalista: «La ripetizione è tutto nella vita e dalla ripetizione nasce la comprensione e la comprensione è per alcuni la cosa più importante che ci sia…» (G. Stein). Thomson divenne il tramite fra l’estetica di Satie e il Gruppo dei Sei, con il suo antisentimentalismo surrealista, e la scuola americana contemporanea, predicando il ritorno a un idioma semplice (talvolta ai confini di un’elegante e raffinata banalità), sempre disposto a ironizzare su se stesso, privo sia della magniloquente retorica dell’età postromantica, sia di quello che chiamava «il neoclassicismo rigidamente modernista del nostro secolo». In quel suo incorporare con colta ingenuità nella partitura bizzarri e improbabili accostamenti – canto gregoriano e motivi da caffè-concerto, fughe bachiane e inni del Middle-West – ritroviamo una sfrontatezza tipicamente americana che prelude a Cage. Al di là del gusto innato per il pastiche , per l’innocentemente sacrilega contaminazione tra i generi, la sintassi musicale di Thomson, contraddistinta da relazioni modali ed enarmoniche inaspettate tra le più semplici triadi diatoniche, conferisce alla musica di Thomson quella caratteristica che Wilfrid Mellers chiama di «instabilità serena», che conduce a una «musica rituale senza una fede ma con una clownesca gravità alla Pierrot», capace di distillare la poesia dalla noia della banalità quotidiana. Per apprezzare compiutamente Four Saints , ha scritto John Cage, «è necessario proiettarsi in quel mondo irrazionale dal quale esso scaturisce, il mondo in cui non vi è distinzione tra ciò che è reale e ciò che è irrazionale, dove allegria e metafisica sono coniugate assieme per generare commedia».

Type:

Opera in due prologhi e quattro atti

Author:

Virgil Thomson (1896-1989)

Subject:

libretto di Gertrude Stein

First:

Hartford (Connecticut), Wadsworth Atheneum, 8 febbraio 1934

Cast:

St. Settlement (S), St. Teresa I (S), St. Teresa II (A), St. Ignatius (Bar), St. Chavez (T), il compare (B), la comare (Ms), St. Plan, St. Stephen, St. Sara, St. Cecilia, St. Celestine, St. Lawrence, St. Jan & St. Placide, St. Absalon, St. Eustace, St

Signature:

f.ma.

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