Dizionario Opera

Heure Espagnole, L’

Come per altri maestri del Novecento, l’incontro di Ravel con il teatro fu qualcosa di occasionale, e si risolse in due soli titoli in un atto: L’heure espagnole e L’enfant et les sortilèges . Nel 1907, a 32 anni, egli godeva di una bella fama come autore di musiche per pianoforte, dalla fortunatissima Pavane pour une infante défuente ai Jeux d’eau ai Miroirs , e di qualche lirica da camera; ma niente aveva composto per orchestra e per la scena. Ma la boccaccesca farsa de L’heure espagnole di Franc-Nohain, vista all’Odéon – che mette in scena le peripezie di una giovane sposa di Toledo, Concepción, insodisfatta del vecchio marito orologiaio, Torquemada, e costretta a destreggiarsi fra maldestri o ridicoli amanti, uno sciocco poeta e un enorme banchiere, che nell’arco di un’ora entrano, escono e si nascondono nella sua bottega, in assenza del legittimo marito – dovette lasciare in lui una forte impressione; così, in un tempo estremamente breve, fra maggio e settembre, l’opera era compiuta. «Da tempo – sono parole di Ravel – pensavo a un lavoro umoristico… Un mucchio di cose mi seducevano in questo lavoro, mélange di conversazione familiare e di lirismo ridicolo a bella posta, atmosfera di rumori insoliti e divertenti che avvolge i personaggi in questa bottega di orologeria. Infine, la possibilità di trarre partito dai ritmi pittoreschi della musica spagnola». Ravel, figlio di madre basca, ha più volte dichiarato «la Spagna è la mia seconda patria», e L’heure espagnole è il primo documento di questo profondo feeling che verrà confermato in molti lavori vocali, pianistici e sinfonici, tra i quali basti ricordare Alborada del Gracioso , la Rapsodie espagnole e il Boléro . Ma nel lavoro di Franc-Nohain non si respira l’aria di un Sud assolato, con le sue passioni travolgenti, le danze frenetiche, i canti d’amore ardenti o dolorosi, cui la Francia ci ha abituato con Carmen ; si vive in una bottega fantastica, di sogno, nella città torpida di una Spagna antica; e pur in un impianto drammatico realistico, i personaggi che vi si muovono non hanno niente del naturalismo psicologico del teatro di fine secolo, e sono piuttosto grottesche marionette: non solo l’inconcludente studente Gonzalve o l’ingombrante banchiere Inigo, ma anche il vigoroso mulattiere Ramiro, che per tutta l’opera non farà che portare avanti e indietro grandi pendole vuote o piene di uomini, e che infine si meriterà con i suoi muscoli l’amore dell’ardente e un po’ sfortunata Concepción.

L’impianto teatrale che confina con la farsa e l’operetta, consente a Ravel di non doversi misurare né con i modelli del realismo imperante, né con l’estenuato simbolismo di Pelléas (del 1902), né tanto meno con l’impegnato drammatismo post-wagneriano: con L’heure espagnole il maestro del Boléro attua per la prima volta su grande scala quell’estetica del gioco e della scommessa che sarà di tutto il suo arco creativo, quel volersi cimentare con qualcosa di insolito e rischioso (registri strumentali ardui, contrasto fra la sola mano sinistra al pianoforte e una grande orchestra, rifacimento di stili ‘altri’, recupero di forme antiche). Nell’affrontare la commedia di Franc-Nohain, si tratta di presentare i personaggi ‘veri’, ma al tempo stesso giocare al camuffamento e stravolgimento dei loro sentimenti: essere, insomma, dentro e fuori la storia, come uno spettatore gelido e un po’ dandy ; o, meglio ancora, come un arguto burattinaio che manovra perfettamente le sue marionette, a momenti sembra anche coinvolto, e prendere sul serio le avventure che ha messo in moto, ma poi butta tutto per aria, beffardo e disincantato; difatti, alla fine dell’atto, i cinque protagonisti si presenteranno al proscenio per gettare la maschera e trarre la scettica morale della favola, (un po’ come nel Falstaff verdiano), sentenziando che «fra tutti gli amanti, alla fine, ha la meglio un mulattiere, solo amante efficace».

Se i personaggi della storia, nel loro vorticoso entrare e uscire fra pendole e piani della casa, hanno i gesti e le mosse meccaniche di automi perfettamente costruiti da un «orologiaio svizzero» (come fu definito Ravel), un’autentica apoteosi dell’ordigno automatico, dei ritmi ossessivi e ineluttabili dei macchinari, è la cornice squisitamente novecentesca che Ravel costruisce intorno a loro, la bottega di Torquemada: orologi, pendole, uccelli, galletti, marionette da carillon pulsano, ognuno con il suo ritmo, nell’androne di sogno, con bilancieri d’orologio misurati con tre metronomi diversi, campane variamente intonate, una figurina meccanica che suona la tromba. E, per collocarsi immediatamente in questa meravigliosa bottega, Ravel scrive un preludio (l’unico brano sinfonico di tutta l’opera) che ci dà la sigla di questo mondo al tempo stesso razionale, misurato, con l’ossessione del tempo, e insieme collocato in un’aura magica e irreale.

Era naturale che, dopo gli esempi di Pelléas et Mélisande e di Louise di Charpentier, nessun compositore potesse ripiegare sulle forme tradizionali dell’opera (recitativi, arie, pezzi d’insieme); così Ravel non scrive nel suo atto una sola romanza (a parte i madrigali dell’amoroso Gonzalve, decisamente caricaturali) e per il resto si serve di uno stile di conversazione molto spigliato e incisivo, parco di spunti cantabili, al cui proposito lo stesso autore consigliava: «A parte il Quintetto finale e in gran parte il ruolo di Gonzalve, lirico con affettazione, dire piuttosto che cantare […] Quasi ovunque è il quasi parlando del recitativo buffo italiano». In una partitura in cui non si dà spazio a espansioni liriche, al canto tradizionale, l’interesse dell’autore si concentra inevitabilmente sulla ricerca di invenzioni strumentali, su un lavoro di filigrana e di pittura quasi a ingrandimento, con un modesto impiego di temi ricorrenti: Ravel enuncia piccole idee, lancia ammicchi, usa citazioni per una sola occasione per poi gettarle via, in una sequenza vorticosa, senza sosta, e con un gusto strumentale che potremmo definire ‘divisionismo fonico’, poiché l’enorme organico orchestrale suona quasi sempre diviso in sezioni, brillanti interventi solistici di alcuni strumenti, e con l’innesto di rumori e del ticchettio di macchinari misurati. A evocare il colore locale contribuisce il largo impiego di movimenti di danza spagnola (flamenco, habanera , jota ), ma anche di un buffo valzer contrappuntato dal gorgoglio del controfagotto che accompagna l’arioso di Don Inigo; anche il ridicolo Gonzalve, che vocalizza sontuosamente su un ritmo di danza, ricorda l’andamento del canto di un altro innamorato, il gracioso che intona l’ Alborada pianistica. È un personaggio, questo dello studente letterato, che nei momenti più difficili o pericolosi si ferma ad annotare suggerimenti per dei possibili poemi, su cui Ravel ha concentrato le più esilaranti invenzioni di tutta l’opera: si ascolti il suo madrigale intonato quando entra nell’orologio, inno all’amore più forte della morte, all’orologio-cassa da morto, nel più ridondante stile barocco; o il suo lamento, accompagnato da un dolente oboe (“En dépit de cette inhumaine”); o il malinconico addio ancora all’orologio in cui è nascosto, quando la donna lo licenzia, stufa delle sue chiacchiere senza fatti. E assai gustosa è l’esagerata disperazione di Concepción (“Oh! La pitoyable aventure”), esilarante presa in giro di tante appassionate dell’opera italiana, costretta suo malgrado a mantenersi fedele e onesta (dei suoi amanti, «uno manca di temperamento, l’altro di natura») in quella terra di Spagna già patria della sensuale Carmen.

A conclusione della commedia, Ravel si concede un tocco di perfidia tutta francese: il mite Torquemada costringe i due amanti a comprarsi le due grosse pendole in cui sono nascosti, e consente al forte Rarniro, d’ora in poi, di venire ogni giorno a «chiedere l’ora» alla bella Concepción. E, venuti al proscenio a commentare la storia, i personaggi concludono vocalizzando sul ritmo di habanera , con un effetto di travolgente comicità, che fa dimenticare certi eccessi nel gioco dell’intelligenza che raggelano qua e là la raffinatissima partitura. Dopo L’heure espagnole , però, Ravel non saprà più guardare con tanto supremo disincanto e scetticismo alle passioni degli uomini, e quando tornerà a ispirarsi al mondo spagnolo, sarà per cantare senz’ombra d’ironia, ma con viva partecipazione, la pena amorosa di uno sfortunato eroe: e saranno le Trois chansons de Don Quichotte a Dulcinèe , il suo ultimo capolavoro.

Type:

Commedia musicale in un atto

Author:

Maurice Ravel (1875-1937)

Subject:

libretto di Franc-Nohain

First:

Parigi, Opéra-Comique, 19 maggio 1911

Cast:

Concepción (S), Gonzalve (T), Torquemada (T), Ramiro (Bar), Don Inigo (B)

Signature:

c.o.

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