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Il core pazzo di Nino D’Angelo in un libro

Il popolare cantante napoletano ha raccontato le proprie umili origini, la passione per la musica, la solidarietà e il calore del pubblico. E la scoperta di Raffaele Viviani che l’ha portato a dirigere un teatro nel cuore della sua città Protagonista indiscusso della canzone napoletana e da alcuni anni interprete a tutto tondo di una world music che suona familiare nei vicoli della sua città come sul palco di Sanremo o fra i grandi boulevard di Londra e New York, Nino D’Angelo ha riversato la sua vita fin qui in un libro appena pubblicato da B.C. Dalai. Si intitola Core pazzo e racconta in prima persona l’infanzia umile ma riscaldata dai legami familiari, i primi passi nel mondo della musica da semplice “posteggiatore”, l’ascesa, il successo e infine la consacrazione internazionale che gli è valsa le lodi di critici dal palato fine come Goffredo Fofi o l’incondizionata ammirazione di un “mostro sacro” come Miles Davis, stregato dalla sua voce.

Valorizzato oltre i consueti circuiti della canzone tradizionale partenopea e dei film tipo Un jeans e una maglietta dalla regista Roberta Torre, che negli anni ’90 ne aveva fatto il protagonista di un documentario e poi del premiato lungometraggio Tano da morire, D’Angelo ha conosciuto una seconda giovinezza sul palco di Sanremo, in tournée che allargavano sempre più il loro raggio d’azione e soprattutto il pubblico di riferimento.

Tra le arti meno note al grande pubblico del Nostro vi è anche la recitazione teatrale, di cui l’autore di Core pazzo tratteggia alcuni irresistibili aneddoti, fra epigoni di Mario Merola, impresari improvvisati che rispondevano al soprannome di “u’chiattone” e interminabili “sceneggiate” in cui la parte del “malamente” era una vera iattura, perché il malcapitato attore rischiava realmente di essere “aspettato fuori” dal pubblico imbufalito per come si era comportato il suo personaggio in scena.

A un certo punto, la relazione di Nino con il teatro prende una piega più profonda e coinvolgente. Capita quando il destino mette sulla sua strada un autore come Raffaele Viviani, cantore insuperato dell’anima popolare dei napoletani. Un destino che porterà in breve l’ormai affermato cantante e attore a farsi carico del rilancio di un vecchio teatro in disuso nel cuore di Forcella. Ma questa piccola storia sarà bene che ve la racconti l’autore di Core pazzo con le sue parole, da cui vi proponiamo il breve estratto che segue.

Da Core pazzo di Nino D’Angelo. B.C. Dalai editore.
Improvvisamente intellettuale. La sceneggiatura e il teatro

(…) Una sera incontrai Patrizia Natale, figura importante del teatro Bellini di Napoli, la quale mi disse che il regista Tato Russo voleva mettere in scena una commedia di Raffaele Viviani, L’ultimo scugnizzo, e che aveva pensato a me per la parte del protagonista. La cosa mi affascinò subito, recitare Viviani era un mio sogno da quando facevo le sceneggiate e poi di Antonio Esposito, il personaggio che dovevo interpretare, mi avevano già parlato diversi amici e tutti mi dicevano la stessa cosa: «Sembra scritto apposta per te». La storia narrava le peripezie di un senza famiglia, cresciuto per strada che senza sapere né leggere né scrivere cerca di sistemarsi presso un avvocato, ricattandolo per la sua amante, e riuscire così, grazie al posto ottenuto, a poter sposare la sua fidanzata, che a breve gli avrebbe dato un figlio. Il desiderio di ‘Ntonio era che il nascituro non dovesse affrontare una vita da scugnizzo come era capitato al padre. Lessi il copione, mi piacque e accettai la proposta. A ottobre iniziammo a provare e dopo un mese debuttammo a Viterbo.

Fu un trionfo di critica e di pubblico. Addirittura il sindaco alla fine della recita salì sul palco e mi fece i complimenti davanti a tutti. Dopo tre anni di repliche de L’ultimo scugnizzo, il Bellini mi propose un altro capolavoro di Viviani, Guappo di cartone, con la regia di Carlo Cerciello, una commedia anche questa degli anni Trenta, ma che sembra scritta oggi. Il mio personaggio era Vincenzo Sanguetta, uomo di strada diventato guappo solo perché per sbaglio aveva preso a schiaffi il boss del quartiere. Quando esce dal carcere, spaventato dal rispetto che tutti hanno per lui, vuole a tutti i costi uscire da quei panni e cerca un lavoro onesto per farsi una famiglia. Vincenzo non troverà niente oltre la rassegnazione e sarà condannato dalla società in cui vive a essere per sempre un uomo che ha sbagliato. Decidemmo di fare una prova generale dello spettacolo per i detenuti nel carcere di Poggioreale, prima di debuttare al teatro Bellini. Fu un’emozione bellissima recitare davanti a persone rinchiuse per molto tempo in quelle celle senza sole, un’esperienza che mi toccò il cuore. Sembravano tutti dei bambini quando sanno di aver fatto qualcosa che non si può fare. In quel momento sentivo di essere la loro famiglia, la loro città, la loro vittoria più grande, la libertà. A fine spettacolo un applauso esageratamente caloroso mi bagnò gli occhi di lacrime e io mi sentii più uomo.

Da questi spettacoli nasce il mio grande amore per Raffaele Viviani. Cominciai a leggere tutte le sue opere e in ognuna di queste trovavo troppe cose che mi appartenevano. Innanzitutto il linguaggio, il mondo del sottoproletariato, le voci della strada e soprattutto i personaggi che sembravano tutti dei miei parenti. A volte durante una recita mi sembrava di vivere dei momenti già vissuti e di sentire delle parole già ascoltate che si erano perse perché con il tempo è cambiata anche la lingua napoletana. Stare in una compagnia per tanto tempo non mi era mai capitato. È come fare parte di una famiglia nuova che esiste quanto il tempo di una tournée. Ho conosciuto degli attori meravigliosi, persone molto sensibili che vivono di solitudini e di piccole soddisfazioni. Dalla mattina aspettano la recita della sera e prima dello spettacolo, nei camerini, si raccontano con sicurezza il passato e con incertezza il futuro. Conoscono alberghi e pensioni di tutte le città e sono molto superstiziosi.

Qualche anno fa, alcuni amici teatranti napoletani mi hanno chiamato dicendomi che la Regione Campania e la Provincia di Napoli avevano rilevato lo storico teatro Trianon di Forcella e mi esprimevano la loro convinzione che proprio io potevo essere quella figura necessaria ad attuare un nuovo progetto per rilanciarlo. Così mi spinsero entusiasticamente a rendermi disponibile per una candidatura alla direzione artistica. Non nascondo che quella notte non ho chiuso occhio, un po’ per l’emozione della sfida, un po’ per la paura di affrontare una responsabilità simile. Ho pensato a tutte le persone che in questi anni hanno voluto con amore il mio successo, perché forse io rappresentavo per loro la possibilità di una rivincita su una vita troppo ingenerosa, e proprio loro, deboli come me, hanno costruito la mia forza e la mia riuscita. E ho pensato a tutti quelli che non potranno mai ribellarsi a un destino già scritto, che si perdono in vicoli sempre più ciechi, sordi, e senza speranza. E poi ho pensato al teatro della sceneggiata dal quale provengo e a quanto fosse emozionante quella partecipazione, quanto fosse viva quell’attenzione del pubblico e a quanto fossero grandi quegli artisti, molti dei quali scomparsi senza aver avuto il tempo di vedere riconosciuto il loro valore. Ho pensato che la parola «popolare» e la parola «uguaglianza» sono entrambe bellissime. E infine ho pensato a Raffaele Viviani, che in questi ultimi anni ho frequentato con il timore di un allievo che sa di avere davanti un maestro grandissimo, irraggiungibile ed esigente che ha tantissimo da insegnare e che non si vuole deludere. Con grande entusiasmo, che è una forza basilare per cambiare qualcosa in un quartiere difficile, accettai l’incarico. All’inizio cercai di capire perché questo bellissimo teatro non fosse riuscito a decollare durante la gestione precedente e perché proprio la gente di Forcella, che in passato aveva sempre affollato il Trianon, aveva perso ogni stimolo a frequentarlo.

Decisi di fare un concerto davanti al teatro che intanto avevo ribattezzato «Trianon Viviani – Teatro del popolo», non tanto per cantare ma soprattutto per riunire il quartiere. Dissi ai porcellani che andare a teatro era un diritto di tutti e che proprio per questo avevamo dimezzato i prezzi degli abbonamenti. Partivamo da un numero deprimente: 65 abbonati. Oggi il Trianon è il primo teatro pubblico per numero di abbonamenti venduti. In più, abbiamo creato dei laboratori, uno con le donne di Forcella, un altro con un’orchestra multietnica. Molte associazioni culturali e sociali si sono servite del nostro teatro, pagandoci solo piccole somme e a volte le abbiamo ospitate addirittura gratis. Qualche anno fa il nostro teatro è stato scelto come la casa della Piedigrotta, ospitando le audizioni e le prove del maestro José Carreras e la mostra dedicata all’emigrazione, organizzata da un giornalista napoletano, Federico Vacalebre. Sono fiero di essere riuscito a portare a teatro persone che per ragioni economiche non potevano permettersi di andarci. Il teatro è cultura e la cultura è di tutti.

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