Greenwashing moda
Moda

Il greenwashing della moda è di moda. Perché le storie sulla sostenibilità non convincono

Greenwashing nella moda: cosa succede quando la sostenibilità diventa marketing?

L’industria della moda è in pole-position per l’inquinamento dovuto alla produzione. Un tema sempre più preponderante per governi, istituzioni, associazioni ambientaliste e soprattutto per le nuove generazioni. I nuovi consumatori sono sempre più consapevoli e non ci stanno. Da anni ormai i marchi hanno accolto questa nuova emergenza e hanno attuato diverse strategie per fronteggiare il problema.

Sostenibilità è la parola d’ordine del momento, ma su cosa sia effettivamente sostenibile e cosa no c’è ancora molta confusione.  Ciò che è certo però è che, vista l’urgenza e la delicatezza del tema, la sostenibilità sta sempre di più diventando una questione di branding e sempre meno di livello morale. C’è chi sperimenta nuovi materiali, chi punta sulle energie rinnovabili e chi attiva programmi di riutilizzo dei prodotti. Anche per le aziende di moda è corsa al bollino verde. Una corsa sfrenata dove oggi, tra chi è rimasto indietro e chi è riuscito a primeggiare, si fanno spazio nuovi dubbi e nuovi interrogativi.

Quali sono stati i provvedimenti della moda?

Riconoscendo il ruolo esercitato nel cambiamento climatico i leader del tessile abbigliamento mondiale  nel 2018 hanno firmato la Carta dell’industria della Moda delle Nazioni Unite con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 30% entro il 2030 (tra gli ultimi arrivati anche il colosso del lusso LVMH). Infatti, attualmente l’industria della moda è responsabile del 10% delle emissioni annue globali.

Da un primo flebile tentativo di miglioramento, è emerso che la complessa struttura della catena di approvvigionamento della moda impedisce ai marchi di conoscere e tracciare correttamente tutti i suoi fornitori, dunque di attuare delle modifiche sostanziali. Ad aggravare la situazione è il fatto che i fornitori collaborano a loro volta più marchi contemporaneamente. Pertanto, ciascun marchio si rifiuta di finanziare miglioramenti di cui potrebbero beneficiare i suoi competitor.

In merito, alcuni marchi stanno provvedendo ad un più corretto tracciamento della filiera produttiva grazie all’ausilio dei Big Data, ovvero dei dati provenienti dai terzisti attraverso cui monitorarli, catalogarli e gestirli al fine di avere un rapporto diretto, chiaro e concreto. Le conversazioni sull’impatto sociale e ambientale della moda sono sature di affermazioni vaghe e statistiche non rintracciabili. Misurare l’impronta ambientale di un’azienda o di un prodotto richiede la semplificazione di sistemi articolati cresciuti nel corso di decenni con scarsi controlli. L’utilizzo di dati e fonti verificate, in tal senso, permette di creare risultati attendibili e non solo slogan acchiappa like. Perché è facile offrire una stima di cambiamenti e obiettivi a lungo termine, un po’ meno dimostrarli.

La sostenibilità della moda al COP26

Un ulteriore accento sulla tematica è stato posto durante il summit ONU COP26 tenutosi a Glasgow sui cambiamenti climatici. La paladina dell’ambiente, Greta Thunberg non ha esitato a condannare aziende e istituzioni, definendo la manifestazione “un festival del greenwashing per i Paesi ricchi”. Un’affermazione violenta che fa luce su delle tristi verità governative e industriali. Di contro, alla COP26 la stilista britannica Stella McCartney, ha presieduto a diversi eventi  portando in alto la bandiera della sue battaglie ambientaliste.

Cos’è il greenwashing?

Greenwashing -letteralmente il  “lavaggio verde”- è la nuova parola del momento in tema di moda e ambiente. Dopo aver tanto parlato di sostenibilità, adesso il nuovo problema che attanaglia le industrie della moda (e il suo pubblico) è il greenwashing. Nella corsa alla sostenibilità, molti marchi hanno utilizzato la tematica ambientale solamente ai fini di marketing e in modo del tutto ingannevole. A lungo, parlare di ambiente è stato un pretesto per cavalcare una tendenza ed aumentare le vendite, distogliendo l’attenzione dalle falle del proprio operato. Un operazione superficiale che ha attirato l’attenzione dei più scrupolosi. Gli attivisti in particolare, hanno puntato il dito contro i marchi di fast fashion -noti per le loro immorali politiche produttive- che talvolta propongono collezioni vagamente sostenibili soprattutto per l’utilizzo di fibre naturali, riciclate o a basso impatto idrico.

Cosa è veramente sostenibile?

Con slogan tipo cotone-eco, linea conscious, ecolabel, ecopelle si distoglie l’attenzione da un problema che va affrontato nella sua interezza e in modo trasversale, non ridotto ed azioni circoscritte. A cosa serve una linea di prodotti in tessuti riciclati se i lavoratori della filiera non godono di alcun tipo di diritto? Qual è il vantaggio di vendere prodotti sostenibili se per venderli viene richiesto un massiccio uso di mezzi di trasporto inquinanti? Perché comprare un capo in ecopelle se le pelli degli animali destinati all’industria alimentare vengono comunque mandate al macero?

H&M Conscious Exclusive 2019 Campaign
H&M Conscious Exclusive 2019 Campaign

Quello della sostenibilità è una questione complessa che coinvolge l’ambiente tanto quanto gli uomini, il prodotto e il produttore. Inoltre, per le fibre è difficile stabilire quali siano le migliori e le peggiori in senso assoluto. Le sentenze deterministiche servono a ben poco. Ogni azione va dunque valutata di per sé. Ciascuna fibra del processo produttivo di un capo andrebbe analizzata sia in termini di impatto dei processi produttivi, sia nella durabilità e nella facilità di smaltimento.

Il cotone per esempio, si smaltisce molto facilmente in quanto fibra naturale ma è un filato con un impatto idrico altissimo, la cui produzione richiede l’uso intensivo di pesticidi e manodopera che opera in condizioni non etiche. L’impatto ambientale stesso del cotone può variare notevolmente a seconda del luogo di produzione e degli strumenti utilizzati. Contrariamente, una fibra sintetica come il poliestere riciclato è più efficiente dal punto di vista idrico rispetto al cotone, ma comporta dei rischi legati all’inquinamento da rilascio di microplastiche e microfibre.

Come evitare il greenwashing

Per evitare il problema del greenwashion sono state messe in campo diverse iniziative. Una di queste è “Make the Label Count”: una campagna lanciata da una coalizione internazionale di organizzazioni per chiedere alla Commissione Europea di garantire sull’abbigliamento etichette di sostenibilità trasparenti, complete e accurate. Anche Fashion Revolution, è un movimento nato per creare consapevolezza nei consumatori e chiedere maggiore trasparenza al mondo dell’abbigliamento anche attraverso l’elaborazione annuale del Fashion Transparency Index.

Sebbene si tratti di una questione ancora tutta in divenire, per sfuggire al greenwashing della moda bisogna -per cominciare- avere piena visibilità dell’intero processo produttivo di un prodotto (dal filato alla vendita), verificare le informazioni ricevute, pensare al suo impiego a lungo termine e guardare al comportamento complessivo del marchio produttore. Solo allora, forse, si potrà parlare di sostenibilità senza retorica.

Fashion Revolution
Fashion Revolution

di Flavia Iride

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