LAMINE KOUYATÉ
Moda

Il Principe dimenticato: la storia di Lamine Kouyaté e XULY.Bët 

La storia di Lamine Kouyaté e XULY.Bët il brand che già trent’anni fa parlava di inclusione e sostenibilità

Nel 1993 Amy Spindler, giornalista del New York Times, definì Lamine Kouyaté “The Prince of Pieces”.

Sembrava infatti che il giovane designer originario del Mali avesse costruito un regno destinato a durare. Tutti parlavano di XULY.Bët, il brand che raccontava di diversità, sostenibilità e creatività, temi che il fashion system ha iniziato a trattare decenni dopo. 

Originario del Mali, Lamine Kouyaté nasce nel 1962 a Bamako, due anni dopo l’indipendenza dalla Francia. Madre dottoressa e padre scrittore, politico e attivista, imprigionato per le sue idee. Nel 1978 l’arrivo in Senegal, terra che, finalmente libera dopo la fine della ditattura, sta vivendo il suo rinascimento culturale. Musicisti, pittori, architetti sono finalmente liberi di esprimere la propria arte. E Lamine si immerge in questo febbrile ambiente. 

LAMINE-KOUYATÉ
LAMINE-KOUYATÉ

Nel 1986 arriva in Francia. Si trasferisce a Strasburgo per studiare architettura ma dopo tre anni abbandona gli studi. Il primo studio all’Hopital Ephemere, piccolo spazio colmo di cianfrusaglie recuperate nei mercatini delle pulci della città, e l’idea di fondare XULY.Bët. 

Sto cercando di creare qualcosa che puoi indossare come un jeans. Indossarlo fino a quando non lo consumi. 

Così Lamine parlava al New York Times. Le sue canottiere da 10 dollari, i suoi abiti da 50, erano richiestissimi anche in una città come Parigi, nutrita da una forte cultura di esclusività e lusso tipico della couture. Recuperava i suoi pezzi nei mercatini delle pulci, li smembrava e riassemblava come l’arte del Kintsugi insegna, rendendo un oggetto rotto prezioso. Questa volta non con oro o argento, come vuole la tradizione giapponese, ma con una spessa cucitura rossa. 

Una cicatrice che è diventata il suo marchio di fabbrica. Ben prima che l’upcycling diventasse una moda, Lamine ha promosso una moda sostenibile e circolare, tramandando l’arte tipica del suo Mali, il saper dare nuova vita a pezzi apparentemente da scartare, nella patinata Ville Lumiere. 

Fw 1994

Mentre discuteva in diretta tv, dai salotti del talk show Cercle du Miniut, con Karl Lagerfeld sullo stato della moda francese, Lamine Kouyaté è stato il primo in tante cose. Il primo ad aver collaborato con un brand di sportswear, con Puma nel 1995, il primo a puntare sull’importanza dell’esperienza all’interno degli store, facendo installare una pista da skate nel suo negozio di New York. Ma anche pioniere nel guerriglia marketing. Nel 1992 il suo debutto con uno show improvviso a Tuileries. In una zona adiacente al luogo dove Jean Paul Gaultier stava per sfilare, una ventina di modelli sfilano con una radio sulle spalle e catturano l’attenzione dei passanti. 

Succede però che Lamine non riesce a stare al passo con l’industria. Poco interessato ai guadagni ai numeri, il suo unico obbiettivo era quello di raccontare la Parigi multiculturale, post coloniale e libera. Creare pochi abiti per clienti dedicati, sensibili al suo messaggio. Ma i numeri, il profitto e il guadagno diventano fondamentali nella moda di fine anni Novanta. Lamine Kouyaté continua a lavorare ma in una sorta di clandestinità, lontano da Parigi. La sede di Xuly.Bët viene spostata nel 2009 a New York, ma la Grande Mela non si rivela terreno fertile per il marchio.

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Ora però, grazie anche al supporto del giovane CEO Rodrigo Martinez, Lamine Kouyaté e Xuly.Bët tornano a Parigi e si riconciliano con quella città che ha accolto il loro successo negli anni Novanta. Sarà Xuly.Bët a chiudere la Paris Fashion Week, il 4 marzo 2022 alle 18:00. 

Di Michela Frau 

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