Dizionario Opera

Iris

La proposta di un’opera ‘giapponese’ venne fatta a Mascagni nel 1896 da Luigi Illica, librettista di testi importanti come La Bohème e Andrea Chénier , che sarà suo collaboratore anche per Le maschere e Isabeau . Mascagni ha appena presentato il piccolo Zanetto , un primo saggio di gusto parnassiano-decadente, e l’idea di Illica interpreta una volontà di rinnovamento rispetto al realismo imperante, l’aspirazione a dare una risposta italiana al simbolismo di un Maeterlinck (il cui Pelléas et Mélisande non è stato però ancora rivestito dalle note di Debussy), intrecciandolo con il gusto per l’esotico che sta dilagando nella cultura europea. A fine Ottocento, il Giappone si affaccia alla ribalta politica internazionale e l’Estremo Oriente viene a sostituire le turcherie care al Settecento e all’età rossiniana; le suppellettili, i paraventi laccati, gli acquerelli, i gesti flessuosi, persino alcuni vocaboli (harahiri, musmé, geisha, kimono) entrano nelle case della borghesia europea e giungono a ispirare i pittori dell’Art Nouveau e della Secessione viennese. E anche scrittori e musicisti di teatro traggono immagini e suggestioni da questa terra incantata e misteriosa: Pierre Loti scrive nel 1887 una fortunata Madame Chrysanthème , da cui deriverà un’operetta di Messager, sull’onda del grande successo del Mikado , nato nel 1885 con musiche di Sullivan. Mascagni accoglie il progetto «con entusiasmo che non ha l’eguale» e si mette a studiare «il tipo armonico giapponese», a Firenze visita la preziosa collezione di strumenti orientali dei baroni Kraus; e di questa ricerca rimarrà nella nuova partitura il timbro dei campanelli giapponesi, del shamisen, dei gong e di un piccolo oboe per l’entrata del teatrino al primo atto, oltre all’impiego della scala esatonale in vari episodi e specialmente nel preludio al terzo atto. Non molto, perché il Giappone raffigurato nell’ Iris è sostanzialmente una terra di fantasia, un paese di sogno inventato, ben diverso da quello ‘autentico’ di Butterfly , che Puccini riempì di temi giapponesi originali e di scale pentafoniche e esatonali per dare maggiore verità ambientale alla sua opera.

La storia di Iris è quella di una fanciulla, figlia di un vecchio cieco, che vive godendo della luce del sole (‘Inno del sole’) e della natura, lieta di una sua disarmante ingenuità (“Ho fatto un triste sogno pauroso”), e diviene oggetto dei desideri di un nobile sensule e annoiato, Osaka; egli la rapisce tramite un teatrino di pupi che incantano Iris, come l’amoroso Jor, figlio del sole, che intona una seducente serenata (“Apri la tua finestra”). Condotta allo Yoshiwara, luogo di perdizione, Iris crede ancora di sognare, o di trovarsi in paradiso (“Io pingo, pingo”); Osaka cerca di sedurla in un lungo duetto (“Oh come al tuo sottile”) alludendo al piacere, che terrorizza la fanciulla (‘aria della piovra’, “Un dì, ero piccina”). Stanco e infastidito della semplicità di Iris, Osaka la lascia in balìa di un viscido sensale d’amore, Kyoto, che la espone nella casa di piacere. Là, raggiunta e maledetta dal padre che non sa del rapimento, Iris si getta, per la vergogna, in un baratro. Prima che muoia, scorrono davanti a lei gli egoismi di coloro che non hanno saputo amarla (il padre, Osaka, Kyoto) e Iris, quasi divina, muore sotto il bacio del sole, che trasforma il suo corpo nel fiore che ha il suo nome.

Una vicenda esile, priva di un forte mordente teatrale (e infatti Mascagni avrebbe preferito un finale scenografico, trionfale), i cui personaggi sono appena delineati e sembrano piuttosto bambole o fantocci dipinti, dai moti e dalle reazioni improvvisi e quasi ingiustificati: l’infatuazione, la noia repentina di Osaka e il suo accorato rimpianto di fronte alla bellezza di Iris, esposta alle Case Verdi: la manierata ingenuità della figura femminile, come la malvagità di Kyoto e la crudeltà ottusa del padre. Ma proprio in questo rifiuto di una logica di teatro realista consiste l’autentica novità di Iris : il libretto, infarcito di didascalie diffuse, più ampie degli stessi versi, propone per la prima volta nel teatro italiano un’opera nella quale i personaggi permangono in una sorta di limbo, inclinando a risolversi, secondo l’estetica simbolista, in emblemi, mentre il ruolo di protagonisti viene assunto dal solenne Fujiyama, dalla cornice, dagli elementi decorativi e dagli espliciti simboli che Illica dissemina in tutto il suo testo. Il Sole è il principio vitale che anima tutte le cose, il padre è cieco e non può né vedere la luce né comprendere nel suo egoismo l’umanità della figlia; nel teatrino dei pupi – un altro felice esempio di ‘teatro nel teatro’, dopo Pagliacci – si raffigura la storia di Dhia, sottratta al crudele padre a opera di Jor, figlio del Sole, e Iris s’identifica con questa piccola eroina, e non saprà disgiungere la voce di Osaka da quella che ha cantato l’ammaliante serenata. E ancora: Iris ha sempre con sé una bambola, su cui proietta le sue pene, con un transfert psicologico; il Piacere è rappresentato come un’orrenda piovra dipinta su un paravento; e, su tutto, preannunciata fin dal titolo, la metamorfosi donna-fiore. Illica, solido librettista storico-realista, scrivendo questo testo per Mascagni abbraccia – almeno per una stagione, ma con convinzione – l’estetica simbolista: d’altronde, «lo stile floreale fu un’espressione decorativa del realismo, che mescolava a motivi tratti dal mondo vegetale, anche figure e aspetti crudamente prelevati dal vero» (Vigolo). E appunto in questa direzione si muovono le scelte musicali di Mascagni, per cui i personaggi o piuttosto alcune loro isolate esplosioni di ‘affetti’ acquistano una verità emotiva assai più sbalzata che le fragili figure di lacca dipinte da Illica, e la storia di Iris, con il suo suggestivo involucro decorativo, può così apparire la trasposizione esotica di una comune cronaca di seduzione di una piccola provinciale, che incontra un qualche Gabriele nel bel mondo e, abbandonata, si ritrova in una casa di piacere della Roma umbertina. I modi di canto di quest’opera, infatti, non si differenziano in maniera radicale dai precedenti mascagnani: Iris ha gli accenti di una adolescente (quasi fosse la Suzel dell’ Amico Fritz ) un po’ bamboleggiante, e solo nella originalissima tornitura dell’aria ‘della piovra’, con quei melismi arcaizzanti e con quella sillabazione serrata, come di un ‘passo’ orientale affrettato e ansimante, attinge la statura di un personaggio tragico; accanto a lei Osaka, nella serenata di Jor, appoggiata ad armonie sempre cangianti, e nel grande duetto d’amore del secondo atto, torna a incarnare il tipo dell’eroe passionale, eppur minato da una irriducibile malinconia e insoddisfazione, l’eterno ‘tenore’ mascagnano. Sul piano più strettamente formale, il principio costruttivo cui l’autore torna a rifarsi è il declamato-arioso, con grande spazio per invenzioni puramente orchestrali, anche se in Iris la ‘volontà di canto’ torna a dominare, consentendo di estrapolare alcune scene, quasi fossero romanze, seppur liberamente articolate, come quelle di Iris in apertura del primo e del secondo atto. Ma, come si diceva, i veri protagonisti sono da ricercarsi al di là delle figure umane: e si dovrà additare fra le massime riuscite il grande preludio dell’opera, con il coro che incarna il Sole («Son io, son io la Vita/ Son la Beltà infinita/ la Luce ed il calor») che, pur respirando nella grandeur milanese del Prologo del Mefistofele , è una pagina autenticamente mascagnana per la bellezza e l’empito dell’invenzione melodica e per la ricchezza dei particolari strumentali; l’inedita pittura delle donne alla fonte, su un incredibile ritmo di bolero (atto primo); le tre danze delle geishe del teatrino, maliose e perfide, che avvolgono e rapiscono Iris: conferme di quanto il senso del décor , della scenografia, dell’arabesco abbia preso spazio anche nella campitura musicale dell’opera. Ma soprattutto si dovrà guardare all’ultimo atto, nel quale nulla si muove di teatrale, se non le simboliche apparizioni degli Egoismi. Appunto nell’affrontare una scena del tutto priva di tensioni, un delirio di morte, come nel terzo atto di Tristano , il ‘sanguigno’ Mascagni tocca il vertice dell’originalità, non solo dando voce toccante a quei fantasmi umani, ma trovando colori inediti (scale esatonali, impiego del ‘terzo suono’ di Tartini nei violini) per il livido paesaggio notturno, un letamaio, nel quale giace il corpo di Iris morente. E l’angosciante figura del cenciaiolo, che fruga tra i rifiuti cantando una balorda serenata alla luna, è una forte premonizione espressionistica, in un paesaggio di morte e disfacimento che qualunque artista della Sezession avrebbe potuto firmare. E quando, invocato da Iris che si chiede «Perché piango e muoio e m’abbandona/ ogni persona e cosa?», riemerge il Sole a illuminare con il suo canto la scena, che diviene miracolosamente un campo fiorito di iris, ci separiamo dall’opera con l’espressione dello smarrimento di un piccolo essere di fronte all’ingiustizia degli uomini e al mistero della morte, ma anche con la sensazione di aver assistito alla rappresentazione di quattro decenni di melodramma: dal Mefistofele del 1868 al verismo di Cavalleria rusticana , al simbolismo, all’espressionismo musicale che deve ancora nascere.

Type:

Opera in tre atti

Author:

Pietro Mascagni (1863-1945)

Subject:

libretto di Luigi Illica

First:

Roma, Teatro Costanzi, 22 novembre 1898

Cast:

il cieco (B), Iris (S), Osaka [Jor] (T), Kyoto (Bar), una geisha (S), un merciaiolo (T), un cenciaiolo (T); musmé, merciaioli, suonatori ambulanti, saltimbanchi, samurai, borghesi, cenciaioli

Signature:

c.o.

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