Dizionario Opera

Jeanne d’Arc au bûcher

Honegger ha sempre avanzato molte riserve sulle possibilità di sopravvivenza in tempi moderni del teatro lirico; a suo dire, fin dall’inizio del secolo il futuro dell’opera non risiedeva più nelle forme tradizionali, ormai sviscerate sotto ogni profilo estetico e formale, ma piuttosto in un nuovo assetto drammaturgico, capace di accogliere sincronicamente l’apporto di varie arti. Proprio questa radicata convinzione induceva Honegger a ritenere prossima all’esaurimento la grande stagione produttiva del teatro musicale: a quale istituzione avrebbero infatti potuto far riferimento le pièces composite da lui caldeggiate, in cui la simultaneità di valori musicali e contributi declamatori di serio impegno interpretativo costituiva un ostacolo sia per una compagnia d’opera sia per una troupe teatrale? Probabilmente a confermarlo nel suo vaticinio pessimistico avevano contribuito anche le difficoltà personalmente incontrate prima di ottenere l’onore delle scene per la sua Jeanne d’Arc au bûcher : la première di Basilea non era che un’esecuzione in forma di concerto, e fu necessario attendere il 13 giugno 1942 e la sollecitudine dello Stadttheater di Zurigo per approdare finalmente a una rappresentazione scenica. Nel frattempo, in ogni caso, il lavoro si era già affermato e a partire dal 1941, in un sobrio allestimento dell’ ensemble ‘Chantier orchestral’ di Lione, circolò attraverso le regioni francesi non occupate, toccando oltre una quarantina di città; e questa sorta di compromesso tra la forma di concerto e quella scenica (analoga a quella inizialmente destinata da Stravinskij alla sua Histoire du soldat ) si sposava in un certo senso al soggetto quattrocentesco in modo appropriato e calzante, dal momento che le compagnie erranti sono in fondo un retaggio del Medioevo.

Fin dal 1925 Honegger aveva ricevuto da Ida Rubinstein, carismatica figura di performer , danzatrice e direttrice artistica, pressanti sollecitazioni a comporre per lei un lavoro ambientato in epoca medioevale; lo spunto di Giovanna d’Arco era nell’aria, anche sulla scorta del capolavoro cinematografico di Dreyer (1928). E nel 1933, quando la Rubinstein riuscì ad avere Honegger come suo ospite a un rinfresco che seguiva alla rappresentazione del mistero medioevale Le Jeu d’Adam et d’Eve , riuscì finalmente a strappargli un mezzo consenso, anche se condizionato alla disponibilità di un letterato idoneo al tema prescelto; la danzatrice aveva infatti esplicitamente commissionato un lavoro tratto dagli atti del processo a Giovanna d’Arco. La scelta cadde su Paul Claudel, già in rapporti con il Gruppo dei Sei e particolarmente versato nei soggetti di ispirazione religiosa; inizialmente però Claudel declinò con decisione la proposta, asserendo che proprio l’esistenza di un vasto archivio documentario sul processo a Giovanna d’Arco rendeva troppo arduo il compito di redigere un testo storicamente credibile e insieme artisticamente ispirato. Un ripensamento lo fece tuttavia ritornare su quel diniego e, dimenticati gli scrupoli e le annose verifiche storiografiche, in pochi giorni presentò la nuova pièce al compositore, che ormai disperava di riceverla. L’impostazione seguita da Claudel favoriva, ai fini musicali, la giustapposizione di stili e linguaggi eterogenei, scelti in modo da assecondare la sequenza di flashback che percorre il testo; l’unità emotiva di questo oratorio drammatico è conseguita proprio tramite l’alternanza del tempo presente, in cui la protagonista presagisce e paventa la condanna ormai prossima, e del passato, rivissuto da Giovanna in tutte le sue contraddizioni e alterne speranze, in una sorta di estrema ricapitolazione della propria vita.

Il prologo venne aggiunto solo nel 1950, ed è basato su un implicito parallelo tra la Francia del Quattrocento e quella ugualmente divisa e oppressa durante il secondo conflitto mondiale: il narratore, intercalando i suoi interventi ai lamenti cupi e sommessi del coro, presenta la figura di Giovanna, aureolandola di profetiche citazioni bibliche. Nella prima scena misteriose voci celesti, cui si alterna lugubre il latrato di un cane, richiamano la santa; ella intanto è già incatenata ai piedi del rogo. A confortarla è frate Dominique, che leggerà per lei il libro su cui gli angeli hanno trascritto la storia della sua vita: una storia intessuta di misticismo e di innocenza, e pertanto incomprensibile alla ottusità umana. Si levano insulti e voci aspre di condanna (‘Le voci della terra’, scena terza); candida e sgomenta, Giovanna si chiede se veramente abbia potuto macchiarsi delle colpe di cui è accusata, e se davvero il suo popolo e i sacerdoti che venerava la abbiano potuta odiare al punto da desiderare la sua morte. Ma frate Domenico deve aprirle gli occhi e le spiega che chi la condannò non era uomo ma bestia, e come tale sordo a quelle voci celesti che parlavano invece alla pastorella. La scena della condanna è la parodia farsesca di un processo il cui esito è stato deciso in partenza; a giudicare il candore disarmato di Giovanna è chiamato un consesso di pecore, presiedute da Porcus (ossia Cochon, contraffazione degradata di Cauchon, nome autentico del vescovo di Beauvais). Quindi un cane ulula nuovamente in lontananza e Giovanna ne rabbrividisce; frate Dominique prosegue nella sua lettura, per rispondere alla domanda della giovane, ansiosa di capire come sia potuta finire su un rogo. La scena successiva è impostata su riferimenti storico-allegorici: giungono per disputare una partita a carte quattro coppie regali (il re di Francia accompagnato dalla Stoltezza sua consorte, il re d’Inghilterra con l’Orgoglio, il duca di Borgogna con l’Avarizia, la Morte con la Lussuria); i veri giocatori saranno però i fanti, ossia la nobiltà francese; al vincitore, l’Inghilterra, viene ceduta Giovanna. La santa crede poi di riascoltare le voci di Caterina e Margherita, sue protettrici celesti; ricorda i momenti felici dell’incoronazione del re a Reims (scene settima e ottava). Qui viene a inserirsi una nuova allegoria; Heurtebise e la Madre delle botti (simboli rispettivamente della Francia settentrionale cerealicola e di quella meridionale viticola) si incontrano scambiandosi cortesie, tra il risuonare di canti popolari; un chierico impone silenzio e raccoglimento e intona un’antifona: a poco a poco le si sovrappone la marcia del corteo regale che si approssima. Nella scena nona frate Dominique chiede a Giovanna che significato avesse la sua spada: «Questa spada non si chiama odio, ma amore», risponde Giovanna, rasserenata e commossa da un suono di voci infantili che ripetono le semplici melodie della sua infanzia, quando a Domrémy cantava il Trimazô. Mentre ripete fra sé, come trasognata, il temino ingenuo del Trimazô, Giovanna si accorge con subitaneo soprassalto di essere ormai sul rogo (scena decima); mentre il popolo la circonda, diviso fra la compassione e l’ostilità, la condannata si sente chiamare dalla Vergine; la disperata e atterrita frenesia di ribellione che la agita per qualche istante viene vinta a poco a poco dalla suasiva dolcezza del conforto disceso dal cielo. Ora comprende che non vi è prova d’amore più grande del sacrificio di sé medesimi; e forte di questa fiamma interiore che la trasfigura, Giovanna ascende a sua volta verso il cielo e sconfigge la fiamma materiale che la consuma.

Secondo Honegger il futuro dell’opera era consegnato alla storia del cinema, a patto che i registi smettessero di pensare alla musica come «colonna sonora», riducendola «al ruolo del tremolo nel vecchio melodramma». L’evoluzione dei rapporti fra musica e cinematografia non realizzò l’auspicio di Honegger e si mantenne ancorata al concetto di colonna sonora; ma Jeanne d’Arc au bûcher sembra rispecchiare, per converso, più di un’eco delle tecniche impiegate nei film, in particolare, come si accennava, nei flashback e nelle dissolvenze. L’intrecciarsi vario e a tratti convulso di canto e recitazione contribuisce ad accentuare la forza tragica del soggetto; spezzoni parlati, melologhi, declamati a tempo, canto vero e proprio si susseguono in un contrasto che crea una continua alternanza di toni e sentimenti. Il prologo si apre in sordina, su un coro lontano e smorzato, il cui lugubre lamento cresce e si addensa come una tempesta all’orizzonte, intervallato dalla clarté cronachistica del narratore; quasi dissolvendosi si spegnerà anche il finale, grandiosa apoteosi cui partecipano cielo e terra, su cui però detiene l’ultima parola il tenero flauto che tante volte (soprattutto nella scena nona) si è sentito, riassumendo in tremuli fregi la purezza fidente degli anni infantili a Domrémy. Le onde Martenot levano spesso il loro gorgoglio inquietante; l’ululato del cane è ottenuto proprio con il ricorso a un loro lungo guizzo ascendente, che agghiaccia Giovanna. Nel corso del processo-farsa un latino maccheronico contrappunta i fatui acuti tenorili del giudice Porcus, in una scena che ha la sua matrice nella grossolanità dissacratrice delle feste medioevali ‘dei folli’; per meglio connotare il suo sommo disprezzo, Honegger sfrutta in questo caso la tipica musica da fiera, da lui notoriamente avversata e non giustificata neanche in nome di un’ironica Sachlichkeit . Il ricorso all’allegoria nella scena nodale del jeu des cartes si inserisce a sua volta sul prototipo sottinteso del ‘mistero’ medioevale; anche se in quel luogo la musica è comunque schiettamente settecentesca, e l’intera partita scorre su un frivolo ritmo di gavotta. La mescolanza di stili sortisce l’effetto di assecondare e accentuare ancor più il senso di atemporalità intrinseco alla vicenda, impostata sul libero divagare della memoria e non sul rigore cronologico degli eventi, sulle imprevedibili reazioni di uno spirito turbato e non sul filo logico della razionalità; così l’animalesca goliardia (non lontana dalla grossièreté dei Carmina Burana ), che trasuda da certe scene di massa, viene contrastata dall’intimismo pastorale di Giovanna, mentre la rovinosa vacuità dei potenti lo è dalle ferme voci dei fanciulli e dai limpidi canti oltremondani. L’ottava scena, quella dell’incoronazione, viene efficacemente tripartita tra un esordio di schietto tono popolare, una sezione intermedia basata su un severo canto antifonale (con partecipazione di un puer cantor solista) e la solenne marcia conclusiva. Nella nona scena il cupo bordone di un coro a bocca chiusa viene invece illuminato dalle morbide trine del flauto, eco di un canto d’usignolo sepolto nei lontani ricordi di Giovanna e ridestato dalla catabasi mnestica dell’agonia spirituale di lei. E anche l’ossessiva fissità ritmica delle scene in cui la folla accusa Giovanna si dissipa nella trasfigurazione finale che, raggiunto l’apice emotivo, rinuncia a ogni perorazione enfatica e si ripiega in un mormorio più commosso che estatico, congedando l’eroina con un silenzio che appare come il contraltare più appropriato al bestiale e orgiastico fragore delle scena di folla.

Type:

(Giovanna d’Arco al rogo) Oratorio drammatico in un prologo e undici scene

Author:

Arthur Honegger (1892-1955)

Subject:

testo di Paul Claudel

First:

Zurigo, Stadttheater, 13 giugno 1942 (prima esecuzione: Basilea, 12 maggio 1938)

Cast:

Jeanne d’Arc (rec), frate Dominique (rec), il narratore (rec), un araldo (rec), il duca di Bedford (rec), Giovanni di Lussemburgo (rec), Regnault di Chartres (rec), Guillaume de Flavy (rec), Heurtebise (rec), un prete (rec), la Madre delle botti (rec), il

Signature:

e.f.

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