jeremy irons, che tempo che fa
Spettacolo,  Cinema

Jeremy Irons: stasera a che tempo che fa

Ospite di punta di stasera alla trasmissione di Fabio Fazio, Jeremy Irons parlerà del suo ultimo film, ‘Assassin’s Creed’, e della sua carriera passata e presente: un’icona di eleganza e talento naturale per la recitazione. La nostra pagina del dizionario del cinema dedicata all’attore inglese

Una carriera in bilico tra ragione e sentimento, quella di Jeremy Irons

tra apparizioni nei migliori film dei più geniali registi contemporanei (Cronenberg, Lynch, Barbet Schröder, Louis Malle) e derive commerciali per sbarcare il lunario, come l’ultimo ‘Assassin’s Creed’, di cui parlerà stasera nella spazio domenicale di Fabio Fazio, ‘Che tempo che fa’.

Jeremy Irons ha sempre portato a spasso la sua immagine di dandy indolente e delicato, alieno allo spirito dei tempi e afflitto da una strana pena del cuore, dai tempi della serie tv Ritorno a Brideshead e di Un Amore di Swann. Riportiamo la voce del Dizionario del Cinema di Mam-e dedicata a Jeremy Irons, con le recensioni dei suoi 10 migliori film:

Moonlighting (1982)

Nel dicembre dell’81, quattro operai edili polacchi, tra i quali il supervisore Novak, arrivano in Inghilterra per ristrutturare un appartamento. Novak apprende dalla televisione che la Polonia è caduta nelle mani di Jaruszelskj, ma, nel timore che la notizia si ripercuota sul lavoro, decide di non dire nulla agli altri. Un affascinante studio sulla solitudine e sulla disperazione. Skolimowski, autore anche della sceneggiatura, evita i toni patetici facendo uso di molta ironia e di un umorismo agrodolce.

Mission (1986)

Kolossal intelligente, fumettone storico-politico da Hollywood d’altri tempi. A Cannes batté con scandalo il Tarkovskij rigorosissimo di Sacrificio. Joffé ha poi dimostrato ampiamente di non essere un grande regista, ma qui è coadiuvato da una storia bellissima e vera: nel XVIII secolo i gesuiti del Guaranì costruiscono, in armonia con gli indigeni, una comunità di impronta quasi comunistica, spazzata via da giochi di politica internazionale.

La bella sceneggiatura di Robert Bolt, quello di Un uomo per tutte le stagioni, è perfettamente funzionante (a parte qualche indugio iniziale su una storia d’amore abbastanza insensata) e c’è l’accoppiata magica tra i set amazzonici fotografati da Chris Menges (Oscar) e una delle partiture più «morriconiane» che Morricone abbia mai composto. Ma basterebbe già il duello tra il sacerdote militante De Niro e il puro Jeremy Irons, tutti e due di grande misura nell’eccesso. Spettacolo di qualità eccelsa, e in fondo di una certa sincerità: nel finale ci si indigna e si piange senza vergogna.

Il mistero Von Bulow (1990)

Giudicato colpevole di tentato omicidio nei confronti della moglie, ora in coma irreversibile, il ricchissimo Claus Von Bulow ricorre in appello affidandosi al celebre avvocato Alan Dershowitz. Questi accetta l’incarico, sebbene nutra forti sospetti sull’innocenza del suo cliente. Schroeder aggira le trappole del film processuale con una struttura a mosaico notevole. Ma il merito della riuscita si deve anche alla buona sceneggiatura di Nicholas Kazan e all’apporto decisivo dei tre protagonisti: Jeremy Irons (vincitore dell’Oscar come migliore attore) su tutti, anche se Glenn Close e l’ottimo Ron Silver non gli sono da meno.

La casa degli spiriti (1993)

Epica saga sudamericana che segue la turbolenta vita di una famiglia in vista dagli anni Venti fino ai primi anni Settanta. Con premesse forti (e chiaramente scritta da qualcuno per cui l’inglese non è la prima lingua), questa storia dai mille intrecci cerca di includere il misticismo del best-seller di Isabel Allende, con risultati deludenti. La Streep è del tutto fuori ruolo, e Irons è forzato nei panni di un ispanico. La figlia di 10 anni della Streep interpreta il suo personaggio da bambina. Uscito in Europa in una versione di 145 minuti.

M. Butterfly (1993)

Un Cronenberg sorprendentemente debole e convenzionale adatta il lavoro teatrale vincitore del Tony di David Henry Hwang sulla relazione stranamente lunga fra un diplomatico francese e una diva/spia cinese che riesce a nascondergli di essere un uomo. I primi piani svelano spudoratamente la mascolinità di Lone. È sintomatico che le trame politiche e perfino lo stanco matrimonio di Irons risultino più avvincenti dello stratagemma principale.

Io ballo da sola (1996)

Lucy torna nella villa in Toscana dove è cresciuta per scoprire chi è il suo vero padre. In una comunità internazionale di ricchi annoiati, troverà invece l’amore. Bertolucci torna a raccontare una storia italiana dopo quindici anni, con aria distesa e occhio giovanissimo. Riunisce un cast bizzarro da vecchio cinefilo (da Jeremy Irons a Jean Marais a Stefania Sandrelli) e filma con curiosità lo schiudersi della bellezza nel corpo di Liv Tyler.

Libero dalle sovrastrutture ideologiche che altrove lo ingabbiano, dà libero sfogo a un piacere di raccontare che si è visto in poche altre pellicole del decennio. Un film solare, un film di morte. E una descrizione di ricchi intellettuali che ad alcuni ha ricordato addirittura La regola del gioco di Renoir. Un film giovane, da conservare per i decenni a venire.

Inseparabili (1998)

I gemelli Mantle sono entrambi ginecologi; uno è introverso e mite, l’altro dominatore. Quando si innamorano della stessa donna, il primo comincia a drogarsi e il secondo poco dopo lo segue, in un percorso di simbiosi e di autodistruzione. Uno dei capolavori di Cronenberg: dopo La mosca , e paradossalmente ancora più radicale di quello, anche se manca l’horror.

Ma qui in realtà tutto è horror: gli incubi abortivi, gli strumenti chirurgici, il corpo della donna e il doppio corpo dei gemelli, i loft amniotici, la «Pietà» omosessuale conclusiva… Trattenuto, in apparenza minimale ma nella sostanza già oltre Videodrome, un film terribile e sottile in cui non accade nulla; un mélo traslato, che oggi ci ricorda con una certa angoscia un intero decennio. Superbo tour de force per Jeremy Irons, prima che diventasse la parodia di se stesso.

Callas Forever (2002)

Parigi 1977, Larry Kelly, impresario, è nella capitale francese per il concerto di una rock band. Decide di cercare la sua amica Maria Callas, che dopo la delusione d’amore con Aristotele Onassis e la scomparsa della sua incredibile voce, si è ritirata nella casa di Avenue Georges Mandel, in preda all’insonnia, alle pillole, all’alcol e ai ricordi legati ai suoi dischi. Kelly vuole far rinascere il soprano grazie ai moderni mezzi tecnologici: il playback. La Callas rifiuta, poi decide di interpretare la Carmen, mai portata in teatro, ma incisa su disco. Il film viene realizzato con successo, ma quando si tratta di ripetere l’esperienza con un’altra opera…

Non è una biografia, non è un film di aneddotica, ma il tentativo di Franco Zeffirelli, amico intimo della Callas, di raccontare lo stato emotivo della diva negli ultimi cinque mesi di vita. La sindrome da «viale del tramonto», il cuore spezzato da Onassis e la fragilità dietro il mito. Una strepitosa Fanny Ardant, perfettamente calata nel ruolo, meticolosa nei particolari, credibile nella statura da diva. A venticinque anni dalla morte, Zeffirelli ci regala una Callas «vera» e pensare che già nel 1977 alcune major americane gli avevano offerto la possibilità di realizzare un film sul soprano, ma il regista fiorentino rifiutò perché gli americani volevano una pellicola di gossip. Meglio così.

Il mercante di Venezia (2004)

Al Festival di Venezia, alla fine della proiezione de Il mercante di Venezia, il pubblico si è come diviso in due, dopo gli applausi, meritatissimi, agli interpreti presenti in sala. Applausi pazienti, visti i ritardi, i posti scippati e le gaffes del direttore Croff. Tra i cinephiles, quelli nuovi, rigorosi (o meglio sedicenti, presunti rigorosi) decretavano il pollice verso per una trascrizione shakespeariana amorfa e piatta, inutile dal punto di vista filmico.

Quelli stagionati, quelli d’antan, tra cui mi annovero, più navigati e possibilisti, erano contenti, avendo tratto dallo spettacolo un grande piacere e una grande emozione. Forse il merito è più di Shakespeare e degli interpreti che non del regista, anche se molti di coloro che l’hanno criticato, non si sono presi neanche la briga di rileggere il testo e confrontarlo con la sua trascrizione. Pochissimi infatti hanno evidenziato le «libertà» che Radford si è preso rispetto al dramma, pur rispettandone di fondo la sua naturale ambiguità. Per esempio, il regista fa iniziare la pièce sul ponte di Rialto, dove si incontrano Antonio e Shylock e il primo sputa sull’ebreo. Nel testo l’episodio è solo raccontato da Shylock in un secondo momento. Ma così facendo il regista mette in primo piano il corno del dilemma, che è quello di un odio che nasce dalla consapevolezza o dalla paura di essere uguali e simili.

Di fatto non c’è nessuna differenza tra Antonio e Shylock, tra il gentile, il goy e l’ebreo, e nel celebre monologo l’usuraio lo affermerà con rabbia. Entrambi, sia Antonio che Shylock, prestano i soldi, l’ebreo lo fa per usura, è l’attività da cui ricava un profitto, Antonio lo fa per ricavarne un credito di affetto, un’obbligazione sentimentale. Dei due è più onesto e meno ipocrita l’ebreo. La società veneziana descritta da Shakespeare e ben evidenziata dal regista, pone il denaro in testa ai suoi valori, anche se dissimula ogni venalità nelle raffinate forme del saper vivere: l’amicizia, l’amore, certamente sono più veri e consistenti e reali se circola il denaro. È così che Bassanio conquista Porzia e viceversa. Il povero Shylock invece è senza difese rispetto all’astuzia dei suoi nemici; basta pensare a come si fa raggirare dalla figlia, che fugge con un goy veneziano portandogli via soldi e gioielli A proposito di quest’ultima, il regista chiude il film con un’immagine di lei che guarda e accarezza l’anello che ha al dito, regalatole dal padre; insinua in lei un’ombra di pentimento e di pietà che riverbera su noi spettatori: è una bella chiusa, ma nel testo non c’è: nessuna pietà per il povero Shylock.

Se il tema principale il denaro, l’altro, importante, è la vendetta. E anche qui, quanto è più ingenuo l’usuraio con la sua barbara e mitica e infantile richiesta di una libbra di carne, rispetto alla sottile perfida vendetta che i cristiani si prendono con la messa in scena legale, con le parole ipocrite di pietà e misericordia, depredandolo perfino del dovuto.
L’ultima scena, quella del processo, così affollata e oppressa, tutta giocata su primi piani, mi è parsa filmisticamente molto efficace. Una domanda che sempre ci si fa leggendo Il mercante e che anche il regista si è fatto. È antisemita questo testo? La sublime ambiguità di Shakespeare permette risposte antitetiche.

A me pare, tuttavia, che se Shylock non sia «simpatico», i suoi nemici cristiani lo sono ancor meno, e quel poco di pietà che traspare dai versi del grande scrittore è tutta per il povero ebreo. Che altro dire: meraviglioso Al Pacino, straordinario Jeromy Irons, perfetti gli altri. Non credete ai critici cinefili: anche se non è un grande film, vale la pena di andarlo a vedere.

La diva Julia (2004)

Lo schema è quello classico delle moralities, lo scontro generazionale e i meccanismi della scalata al successo nell’ambiente teatrale. Nel cinema esiste un capolavoro, la cui referenza è d’obbligo: si tratta di Eva contro Eva  del 1950, diretto da Joseph L. Mankiewicz: una celebre matura attrice, interpretata da un’indimenticabile Bette Davis, si vede soffiare il ruolo dalla sua giovane e ipocrita segretaria (Ann Baxter). Il film ebbe un tale successo che negli anni Settanta ne fu ricavato un musical, Applause, interpretato da Lauren Bacall.

Tutto questo lungo preambolo per affermare che La diva Julia,  dell’ottimo Istvàn Szabò, segue tutt’altra strada, perché il modello qui è letterario e si rifà fedelmente al romanzo di Somerset Maugham, pubblicato in Inghilterra nel 1935 con il titolo di Theatre e, in Italia, nella collezione Medusa della Mondadori, uscì nel 1938 come Ritratto d’attrice, ancor oggi rintracciabile in qualche bancarella. Ma non conviene, perché l’Adelphi l’ha ristampato in un’ottima traduzione, oggi anche in edizione economica, col titolo che il film ha ripreso. Maugham conosceva alla perfezione l’ambiente teatrale londinese del suo tempo e, probabilmente quel ritratto di Julia che descrive con tanta finezza psicologica e humour si ispira a un modello reale, così come sono reali i contorni, i personaggi e i luoghi intorno a lei. La moralità, nello scanzonato, acuto ma navigato viveur Maugham, si risolve in un’amabile, per lo meno in questo romanzo, satira del puritanesimo inglese, un retaggio vittoriano-edoardiano, sopportato come una maschera di comodo: tutto è ammesso, purché non faccia scandalo.

Contrariamente al film di Mankiewicz, più duro nel giudicare la società americana, qui trionfano la furbizia e la saggezza/sagacia della maturità: la bella e stagionata Julia, che al culmine del successo teatrale s’innamora perdutamente di un giovane troppo intraprendente, che la tradisce con un’attricetta, riuscirà con un vero e proprio coup de théâtre
col trionfare dell’infido amante e della squinzia che lui le ha messo tra i piedi. E il divertimento è assicurato, per lo spettatore, grazie anche alla sceneggiatura, calibratissima, di Ronald Harwood, vera forza del film, alle deliziose musiche d’epoca (molto Cole Porter), all’interpretazione magnifica di Annette Bening (cui presta voce italiana Mariangela Melato) e di Jeremy Irons, alla perfetta archeologica ricostruzione ambientale del regista, il quale, senza metterci troppo di suo, segue abilmente la strada ben percorsa da altri: in altre parole, più che di Szabò sembra un film di James Ivory.

 

Vuoi ricevere Mam-e direttamente nella tua casella di posta? Iscriviti alla Newsletter, ti manderemo un’email a settimana con il meglio del nostro Magazine.

CLICCA QUI PER SAPERNE DI PIÙ!