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Joshua Redman, a prova di fede

Giunto in Italia per alcuni concerti con i compagni Aaron Goldberg (pianoforte), Reuben Rogers (basso) e Gregory Hutchinson (batteria), Joshua Redman si è dimostrato molto disponibile a parlare del suo ultimo disco e dei suoi trascorsi come musicista. Ecco il resoconto della chiacchierata… Giunto in Italia per alcuni concerti con i compagni Aaron Goldberg (pianoforte), Reuben Rogers (basso) e Gregory Hutchinson (batteria), Joshua Redman si è dimostrato molto disponibile a parlare del suo ultimo disco (recensito nell’apposita sezione) e dei suoi trascorsi come musicista. Per chi non lo sapesse, il sassofonista è considerato il migliore e per certo il più famoso musicista jazz venuto alla ribalta negli anni Novanta. Ecco il resoconto della chiacchierata… Mr. Redman, le piace essere qui in Italia? Oh, è bellissimo: Roma è una città meravigliosa e, in generale, l’Italia è uno dei posti dove di più mi piace suonare. Ma lei suona sempre: è continuamente in tour… Sì, passo parecchi mesi dell’anno in tour, perché questo è il mio lavoro ed è ciò che mi piace fare. Che tipo di concerto state portando in giro, lei e la sua band? Principalmente eseguiamo materiale dal mio nuovo album, Beyond. Dopodiché ci sono i nostri arrangiamenti di alcuni standard o di altri musicisti jazz come Tony Williams. È un buon modo di bilanciare le cose. Il suo ultimo lavoro, dopo alcuni album di crossover, è un ritorno al classico jazz acustico. Come mai questa scelta? Non credo che il jazz, in ogni caso, possa essere considerato classico. Beyond , nonostante sia acustico, è un lavoro dove io mi muovo in nuovi territori musicali. Confrontandolo con alcuni miei lavori passati, che erano elettrici, questo è di tutt’altra impostazione, che io chiamerei straight-ahead jazz . Ritmicamente tentiamo di preservare la spontaneità del jazz e la libertà dell’interazione fra noi quattro, ma tutto sempre con un nostro preciso groove . Ritengo che io e gli altri siamo menti aperte davanti a quel che ascoltiamo e suoniamo. Beyond, quindi, è una tappa del suo viaggio musicale? Proprio così. È un’estensione di ciò che ho fatto in precedenza, con nuovi aspetti musicali. Ritengo di essere cresciuto molto, come musicista: le mie composizioni e il mio modo di suonare sono divenuti sempre più profondi, più ponderati, più maturi. Beyond , in questo senso, lo trovo più personale rispetto ai miei altri album. Come compone la sua musica? Raramente compongo al sassofono. Magari inizio con il sassofono, ma a un certo punto ho sempre bisogno del pianoforte, giusto perché con quest’ultimo si ha più chiaramente l’idea di come dev’essere la composizione. Il pianoforte mi consente di udire le linee di basso, gli accordi e la melodia senza grandi sforzi. Eccetto ciò, non ho alcun abituale metodo di composizione: tutto nasce da un’idea melodica, da un semplice frammento o in ogni caso da spunti del genere. Una composizione può anche partire dal niente ma vi è sempre un inizio, un seme che nasce dall’umore. È una specie di feeling che sento crescere in me. Può raccontarci qualcosa del suo background? Sono nato a Berkeley in California, dove ho vissuto fino ai diciotto anni cresciuto da mia madre. Mio padre Dewey è ben conosciuto all’interno della comunità nera come sassofonista jazz. Purtroppo io e lui non abbiamo avuto continuativi rapporti personali: lui e mia madre non sono mai stati sposati. A un certo punto mi sono trasferito a Boston in Massachusetts, dove ho frequentato il Berklee College of Music e il New England Conservatory Che rapporto ha avuto con suo padre? Per parecchio tempo l’ho visto giusto una volta all’anno, quando veniva a Berkeley per fare qualche concerto. Mia madre è stata entrambi i genitori, mi ha cresciuto e mi ha fatto conoscere l’arte. È con lei che sono in debito per il mio successo. Anche sua madre è musicista? Mia madre è stata una ballerina, fino a quando non ebbe un infortunio. È una persona davvero creativa e adora la musica, come me. In casa nostra c’è sempre stata tantissima musica: jazz, classica, rock’n’roll, soul e qualsiasi altro genere. È così che sono cresciuto e ciò ha comportato in modo che io avessi sempre le orecchie ben aperte. Quando ha iniziato a suonare il sassofono? All’incirca quando avevo dieci anni, anche se prima suonavo già altri strumenti. Ero già molto portato verso la musica. Lei ha poco più di trent’anni ed è un nero-americano: come vive che il jazz oggigiorno è suonato soprattutto da musicisti bianchi? Da noi in Italia, per esempio, c’è un buon culto per il giro downtown newyorchese: John Zorn, Medeski Martin & Wood, John Lurie/Lounge Lizards, tutti artisti di matrice jazz e ugualmente bianchi. Il mio caso personale, si spiega con il fatto che mio padre di professione ha sempre fatto il jazzista e in qualche modo ne ho seguito le orme. La questione, più in generale, credo sia molto complessa: da un certo punto di vista, che il jazz sia suonato da un sempre maggiore numero di individui bianchi è un fatto giusto, perché ciò significa che nel tempo c’è stata un’evoluzione corretta la quale ha coinvolto gente diversa. In altro modo, penso che i neri debbano preservare il più possibile la propria identità: lo stesso, il jazz è uno stile musicale che vive in generi come l’hip-hop, il soul e il r&b, tipi di musica che tuttora sono prevalentemente di matrice nera. Voglio aggiungere una cosa, ossia che il jazz negli ultimi tempi sta attirando a sé un’audience più giovane rispetto a qualche anno orsono, quando essenzialmente il pubblico era composto di persone più mature. Questa va bene, anche se penso che il jazz in sé non diventerà mai una musica mainstream: ci vuole troppa concentrazione, per suonarla e per ascoltarla, anche se si sta consolidando, come dimostrano le vendite dei dischi e il successo dei concerti. Che cosa significa, per lei, «jazz»? Oh… è difficile rispondere. Significa molte cose. Penso che il significato della parola «jazz» è in costante cambiamento: in ogni caso riguarda cuore e anima, ovviamente, e poi c’è una questione pratica che tecnicamente è basata sul ritmo, su qualcosa definibile swing e sul blues. In più di cent’anni, la parola jazz ha inteso un intero vocabolario sviluppatosi in un linguaggio sempre differente. È questa la cosa veramente affascinante della musica jazz. Oltre al fatto che lei è figlio di un jazzista, cosa la attrae della musica jazz? La prima cosa è l’improvvisazione: nessun’altra musica ti permette di essere te stesso come il jazz. Ti consente di comunicare esattamente come «ti senti nel momento in cui ti senti», capisce? Come il titolo di un pezzo presente in Beyond, Leaph Of Faith , il jazz è una prova di fede. Chi sono i suoi musicista jazz preferiti? Ce ne sono tantissimi, ma se devo scegliere i primi che mi vengono in mente sono Lester Young, Stan Getz e John Coltrane. No, scegliere è impossibile: Miles Davis, Dizzy Gillespie, Eric Doplhy, Dexter Gordon, Tony Williams, Duke Ellington, Brandford Marsalis, Thelonius Monk, Sonny Rollins, Ornette Coleman e mille altri. Negli anni ho avuto l’opportunità di suonare con grandi musicisti quali Charlie Haden, Pat Metheny, Elvin Jones e Jack DeJohnette: tutti loro li rispetto e hanno avuto una forte influenza sul mio modo di suonare. Chi sono i suoi artisti preferiti nell’ambito pop e rock? Adesso sto ascoltando l’ultimo disco di Fiona Apple, When The Pawn… : adoro la sua musica e mi piace come persona, è dolce e intelligente. Poi, mi piacciono nomi più classici, con i quali sono cresciuto: George Clinton, Eric Clapton, Stevie Wonder, Steely Dan, Jimi Hendrix Experience, Marvin Gaye, Prince e Aretha Franklyn, sono i primi che mi vengono in mente. (cico casartelli)

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