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La Boheme di Franco Zeffirelli: oggi 25 maggio su RAI 5

La Bohème di Giacomo Puccini nello storico allestimento di Franco Zeffirelli. Oggi, 25 maggio, su Rai 5

La Bohème di Giacomo Puccini in tv su Rai 5, oggi, 25 maggio. Nello storico allestimento di Franco Zeffirelli, va in onda uno dei capolavori di Giacomo Puccini, direttamente dal Teatro Arcimboldi di Milano.

L’opera è stata rappresentata nel 2007 in quel di Milano e verrà riproposta oggi, 25 maggio, su Rai 5, nell’ambito del progetto un’opera al giorno (vedi). Da due mesi ormai, infatti, il palinsesto promosso da Rai Cultura ci fa compagnia con preziose rappresentazioni dei titoli più importanti.

Alla regia dell’opera Franco Zeffirelli, alla direzione il maestro Bruno Bartoletti. Tra le voci, invece, Marcelo Alvarez, Natale De Carolis, Matteo Peirone, Cristina Gallardo-Domas e Roberto Servile.

La Bohème su Rai 5: scheda dell’opera

La Bohème è un’opera in quattro quadri di Giacomo Puccini (1858-1924) su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal romanzo Scènes de la vie de Bohéme di Henri Murger. Prima rappresentazione: Torino, Teatro Regio, 1° febbraio 1896. (Per una scheda completa vedi Bohéme nel Dizionario dell’Opera Mam-e).

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Personaggi:

  • Mimì (soprano);
  • Musetta (soprano);
  • Rodolfo, poeta (tenore);
  • Marcello, pittore (baritono);
  • Schaunard, musicista (baritono);
  • Colline, filosofo (basso);
  • Parpignol, venditore ambulante (tenore);
  • Benôit, padrone di casa (basso);
  • Alcindoro, consigliere di stato (basso);
  • il sergente dei doganieri (basso);
  • studenti, sartine, borghesi, bottegai e bottegaie, venditori ambulanti, soldati, ragazzi e ragazze.

Il libretto dell’opera ebbe una gestazione molto laboriosa, per la difficoltà di adattare la trama alla rigida struttura di un’opera lirica. La scrittura della partitura, al contrario, fu abbastanza rapida.

Liberatosi dai diritti d’autore il fortunato e popolare romanzone di Murger, apparso a puntate su ‘Le Corsaire’ dal 1845 al 1848 e ridotto in seguito (1849) anche per le scene con la collaborazione di Théodore Barrière, furono in due a pensare di trarne un’opera:

Leoncavallo ci pensò per primo, ma la prima a essere rappresentata fu quella di Puccini, che condannò presto al dimenticatoio la fatica dell’autore di Pagliacci. Da qui una polemica continua non solo fra i due, ma anche fra le rispettive case editrici, Sonzogno e Ricordi, e tra ‘Il Secolo’ e il ‘Corriere della Sera’.

Dal romanzo francese, Illica prevede inizialmente un libretto in quattro atti e cinque scene, mentre nella stesura definitiva l’opera sarà in quattro quadri.

La Bohème di Puccini: trama

Vediamo ora più nel dettaglio i quadri che compongono la Bohème che andrà in onda su Rai 5. A fare da sfondo è l’esistenza spensierata di un gruppo di giovani bohèmien. L’opera è ambientanta nella Parigi del 1830.

Quadro primo

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Tutta l’opera si svolge nell’attesa che da Parigi si dilegui il freddo che, da reale, diventa presto metafora dell’esistenza.

Il dialogo iniziale tra Marcello e Rodolfo (“Nei cieli bigi”) sottintende tutto il consueto conflitto di arte e realtà. In questo dialogo incombe il fondale: la città sotto la neve e fumante in mille comignoli, che Rodolfo guarda dall’alto della soffitta.

Anche la stagione dell’amore, benché si sia in gioventù ( Bohème è una tragedia della giovinezza), è fredda in questa Parigi 1830, come Marcello dice:

«Ho diacciate / le dita quasi ancora le tenessi immollate / giù in quella gran ghiacciaia che è il cuore di Musetta» (i verbi d’esordio di Marcello erano stati «ammollisce e assidera», qui replicati in «immollate» e «ghiacciaia», per dire minimamente del cesello librettistico); ma ci vuol più ad alimentare un cuore che un caminetto; Rodolfo e Marcello sono d’accordo che «L’amore è un caminetto che sciupa troppo… e in fretta!».

È la vigilia di Natale. Mentre Schaunard, Colline e Marcello vanno al Quartiere Latino, Rodolfo, che deve terminare l’articolo di fondo del ‘Castoro’, resta in casa. Mestierante com’è pensa di sbrigarsela in fretta, scrive ma accartoccia e getta via, accorgendosi presto di non essere in vena.

Mentre sta lì, bussano alla porta. È Mimì, la dirimpettaia, che non sa più come accendere il lume che le si è spento, e che, in aggiunta, subito sviene, suscitando le preoccupazioni di Rodolfo.

«Poco, poco» dice Mimì, che già si sente meglio, ma intanto ha perso la chiave di casa. Si mette a cercarla con Rodolfo, che la trova e la nasconde perché vuol stare con Mimì: un po’ per il buio, un po’ perché così gli piace, le struscia la mano e le dice com’è fredda, corteggiandola; anzi, visto che ci si trova, le racconta in breve la sua storia: di un poeta che vive con poco (“Che gelida manina”), in lieta povertà.

Mimì si mette sulla stessa corda e gli racconta di essere una che ricama, a cui piacciono i fiori, che prega ma non va sempre a messa: e dice di aspettare lo «sgelo», per inebriarsi del primo sole di aprile (“Sì, mi chiamano Mimì”). Insomma si innamorano sotto la sigla di questo ‘sgelo’ anticipato dal cuore, che è come il motore nascosto ma di cui si sente il rombo in Bohème (“O soave fanciulla”).

Vanno anche loro al Quartiere Latino, al caffè Momus, benché Rodolfo abbia fatto capire, con sbrigativa e tuttavia galante esplicitezza, che sarebbe stato meglio restare nel caldo improvviso di quella soffitta, dovuto non solo e non proprio alle fascine procurate da Schaunard.

Atto secondo

C’è festa e c’è folla al Quartiere Latino, ci sono venditori e negozi; così, mentre per conto loro gli amici vanno alla ricerca di un posto dove mangiare, possibilmente un tavolino da Momus, Rodolfo regala a Mimì una cuffietta rosa. Colline, intanto, s’è comprato una zimarra rattoppata ma dignitosa. L’altra coppia di Bohème è travagliata, più spine che rose. Marcello e Musetta, allegra donnetta, hanno litigato.

Musetta celebra le proprie lodi, che appaiono al cavalier servente Alcindoro, nientemeno che un consigliere di stato, un «canto scurrile»: dunque Musetta è cantante, canta proprio nella realtà della scena, non soltanto nella scena d’opera, e come una diva mette letteralmente ai suoi piedi Alcindoro (dice di un dolore e di un bruciore e al «dove?» di Alcindoro, che già «si china per slacciare la scarpa a Musetta», risponde «al pie’», «mostrando il piede con civetteria»).

Mentre Alcindoro va a procurare un altro paio di scarpe per far star comoda Musetta, Marcello, irresistibilmente riconquistato, se la porta via in braccio. Il consigliere di stato riappare con un cartoccio racchiudente le calzature, in una scena tenera e ironica, non per lui: addossandosi ruolo, costi quel che costi, di cagnolino pronto ai piedini vezzosi della sua padrona. E, alla presentazione del conto che gli è stato lasciato dall’allegra brigata, non sa più cosa dire.

Terminato questo blocco di sostanziosa unità spazio-temporale, la narrazione di Bohème fa un salto.

Atto terzo

«La voce di Mimì aveva una sonorità che penetrava nel cuore di Rodolfo come i rintocchi di un’agonia», aveva scritto Murger, e nel bel collage che all’inizio del terzo atto profila Mimì di petto a Musetta («possedeva il genio dell’eleganza […] non aveva che una regola, il capriccio»), s’annunciano due strade che, portando entrambe alla femminilità, ovunque s’incontrano e ovunque divergono.

Qualche mese dopo, a febbraio, l’arte sembra essere sconfitta dalla vita alla barriera d’Enfer. Marcello rifà l’insegna di un cabaret: il quadro che dipingeva all’inizio ora (per le solite ragioni di lunario) ha cambiato titolo. Annunciata da colpi di tosse, arriva Mimì: ha litigato con Rodolfo e non sa ancora che a Parigi, dai tempi di Violetta, si muore di tisi. Nascostasi Mimì, ecco Rodolfo, che spiega a Marcello i motivi del litigio: Mimì è una civetta, dice, e poi, prestamente pentendosi: è tanto malata, questa è la verità, e lui sente e sa di non poterle offrire giusto ricovero.

Mimì si scopre, ma ha già scoperto, dalle parole di Rodolfo, di dover morire. Decide di tornarsene al «solitario nido» da dove uscì per il richiamo d’amore. Prega Rodolfo di consegnare al portiere le poche cose che lascia: lui potrà tenersi la cuffietta rosa per ricordo; l’addio è senza rancore, anzi è rinviato alla stagione dei fiori, nel mese più crudele ma in cui sembra di non essere soli, ad aprile (“Donde lieta uscì… Addio dolce svegliare”).

Atto quarto

Tempo dopo, nella soffitta dell’inizio, Rodolfo e Marcello stanno ancora a voler credere di fare arte.

Pensano alle loro due civette (“In un coupé… O Mimì, tu più non torni”): Mimì e Musetta stanno lontane (Mimì, pare, amoreggia con un viscontino). Restano degli oggetti coi quali ricordarle, come souvenir o surrogati dell’amore che fu: per Rodolfo, la cuffietta rosa. Arrivano Schaunard e Colline e si fa finta di banchettare col poco che c’è; poi si fa finta di divertirsi, con danze e danze: minuetto, pavanella, fandango, quadriglia, dove Puccini cita ironicamente il repertorio classico.

Mimì, però, sta molto male. Gli amici accolgono la poveretta che è tanto malata e che, abbandonato il viscontino, torna per morire accanto al suo geloso Rodolfo. Fa freddo: Musetta incarica Marcello di andare a vendere gli orecchini per comprare qualche cordiale e un manicotto contro il freddo, per chiamare un dottore; il grande Colline, tirando le fila del suo sistema filosofico, si vende il pastrano, la sua vecchia zimarra, e allo scopo esce con Schaunard (“Vecchia zimarra”).

Mimì, atteggiando con la voce un’aria popolare (la forma metrica del testo è uno strambotto – “Sono andati? Fingevo di dormire”) dice di aver finto di dormire per restare sola col suo Rodolfo: che qui lancia il più tragicamente straziato e appassionato dei suoi richiami d’amore.

Insieme ricordano i giorni lieti di “Mi chiamano Mimì” e di “Che gelida manina”. Mimì s’era allora subito accorta di tutto, della chiave nascosta, per esempio, ed era stata al gioco, ingenua ma non tanto. Tossisce. Tutti si accorgono di quel che sta per capitare, tranne Rodolfo, che non vuole cedere al destino. Sul manoscritto della partitura è il punto in cui Puccini, che sapeva quando far morire le donne fragili che creava, che sapeva come colpire i cuori per spillarne lacrime, ha disegnato il teschio con le due ossa incrociate sotto, come lo stendardo dei pirati, lui pirata del sentimento in musica.

Sotto teschio e ossa, in atto di suprema consapevolezza teatrale e non meno supremo, ma provvisorio, cinismo, Puccini ha scritto «Mimì». In una lettera, commentando a ridosso della fine della stesura (10 novembre 1895, l’inizio era stato nel gennaio del ‘93), cedendo per una volta ai meccanismi del sentimento che dominava da maestro, almeno come le sue note, scrisse dell’ «effetto di avere visto morire una sua creatura».

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