La zona opaca del lusso e il lato etico della moda
C’è un lato etico della moda che incide sulla crisi del lusso
Tutto parte da quanto dichiarato da Jean-Jacques Guiony, l’esperto CFO di LVMH alla presentazione dei risultati del secondo trimestre del gruppo, che confessa “di non avere idea di quali saranno le prospettive”.
La crisi del lusso: il post covid e il Behind Money
Ormai è comunemente accettato il concetto che moda e lusso siano entrati in una zona pericolosa di crisi. Cos’è successo? Il post covid aveva lasciato immaginare, con bilanci di tutte le più importanti case di moda e del lusso internazionali in forte ascesa, un periodo di crescita senza fine.
Invece, i dati di oggi, come quelli dei grandi conglomerati come LVMH e Kering, dimostrano che la moda e il lusso sono in crisi, una crisi non solo di mercati, dettata dal rallentamento di Cina e America, ma una crisi di consumi anche del cosiddetto Behind Money, cioè l’1% dei clienti del lusso che rappresenta il 21% del fatturato dei brand più importanti, con una spesa annua di 380.000 dollari in abiti, borse e accessori.
La crisi del lusso: la zona opaca del lusso
Questi sono stati i dati del post covid, ma indubbiamente assistiamo a fine 2023 e nel 2024 a una crisi che si aggrava e a cui i grandi player della moda e del lusso sembrano non riuscire a dare una risposta adeguata. Da una parte c’è un tentativo sempre più forte di fidelizzazione dei clienti, attraverso la proposta di eventi targhettizzati, ma nessuno ha mai voluto parlare dell’area opaca dei consumi, concetto che sta alla base di un’importante percentuale degli acquisti della moda e del lusso.
Se la crescita dei prezzi ha permesso ai più importanti brand un’esplosione dei bilanci non pare sia in essere una riflessione sulla fascia opaca dei grandi acquirenti della moda, cioè quella dei “soldi facili”. Questa fascia, che basa la sua capacità di acquisti su una grande mole di denaro proveniente da affari illeciti, è certamente un target che non si ferma neanche davanti a un esagerato aumento dei prezzi.
È evidente che il prezzo non sia una variabile importante per questi consumatori, poiché in questi casi l’accesso al denaro risulta sempre piuttosto rapido e semplice. Nessuno ha mai alzato un dito per evidenziare questo fenomeno, ma tutti ricordano le Olgettine dei tempi di Berlusconi, un esempio per tutti, immortalate con firme da capo a piedi.
Con poca evidenza è stato stigmatizzato l’invito della moglie del Chapo alle ultime sfilate: certo un creatore di moda improbabile che pone la sua pubblicità in un fatto così negativo non esprime il sentiment di un grande comparto come quello della moda e del lusso. Inoltre, riteniamo che l’affidarsi in maniera troppo importante agli influencer, oggi di un brand e domani di un altro, per tutti il caso Ferragni per Tod’s e L’Oreal, promozione e rimozione evidentemente troppo rapide, dando l’idea che nella moda ci si esprima sempre con percorsi di breve termine.
Tuttavia esporre tute per giovani da migliaia di euro e/o capi come per esempio le borse di Armani, che costano 98 euro e vengono rivendute a 1800, evidenzia un atteggiamento spregiudicato nei confronti dei propri consumatori. E qui torna il concetto della “zona grigia”, sono consumatori che possono sempre permettersi tutto.
La crisi del lusso: l’ampia fascia degli entry level
Non ci sono solo i già citati Behind Money, ma anche gli entry level, ovvero coloro che si avvicinano ai grandi marchi con un acquisto di un accessorio marginale, ma che immaginano in questo modo di mettere un piede nel grande settore della moda di lusso, prevedendo importanti acquisti futuri. Questa è una fascia di clienti ampia che ambisce ad entrare nel magico mondo del lusso, ma che viene frenata dai prezzi che tutti i grandi produttori esibiscono in svariate migliaia di euro per capo e che pone questi consumatori in una posizione di maggiore attenzione ai prezzi delle grandi maison.
Dall’altra parte si sviluppa l’inarrestabile area del fast fashion, che basa i suoi prezzi sullo sfruttamento del lavoro di collaboratori in aree in cui i diritti del lavoro non sono tutelati, come Cina e Far East, offrendo capi di ottima fattura a prezzi irrisori. D’altronde questo è un settore che non conosce crisi.
Dall’esame di questi due macro fenomeni esce un unico ed evidente concetto, quello di moda etica, che dovrebbe ispirare maggiormente l’attenzione dei marchi della moda e del lusso.
Sia chiaro che moda e lusso sono dei concetti che vengono premiati da sempre dagli acquirenti, tuttavia i grandi gruppi della finanza sono andati oltre, con la ricerca di grossi profitti di breve termine, che limitano la creatività dei designer, anche potenzialmente emergenti che hanno bisogno di un percorso più lungo come tutti i grandi protagonisti della moda dell’ultimo secolo. Questa fretta di raggiungere obiettivi in breve tempo crea un turn over di stilisti sostituiti con troppa rapidità qualora non raggiungano i traguardi economici prefissati dalle aziende.
Se questo è il quadro generale, pur salvo rare eccezioni, l’Italia si trova su un gradino inferiore perché non dispone di gruppi internazionali di rilevante potenza economico finanziaria e perché affronta la crisi del cambio di generazione dei grandi creatori del Made in Italy quasi sempre con breve respiro.
A nostro avviso uno dei pochi gruppi che si difende dalla crisi del lusso è Prada, che con l’ingresso di un manager di un alto livello come Andrea Guerra, con precedenti esperienze di guida in grandi gruppi come LVMH, sembra aver ritrovato un moltiplicatore di crescita molto importante in un periodo di tempo relativamente breve.
Conclusioni: C’è un lato etico della moda che incide sulla crisi del lusso.
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