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Le cartoline fragili di Tolcachir

Conversazioni sulla pedagogia teatrale con Claudio Tolcachir, drammaturgo e regista argentino, uno dei cinque maestri del Laboratorio Internazionale Biennale di Venezia

Il maestro più giovane della Biennale Teatro 2012 si chiama Claudio Tolcachir, drammaturgo e regista di nuova generazione conosciuto in Italia grazie a spettacoli come Tercer Cuerpo, La omisión  de la familia Coleman, El viento en un violin, andati in scena al Piccolo Teatro di Milano e al Napoli Teatro Festival. L’artista argentino è stato chiamato a dirigere un seminario esperienziale per attori all’interno del Laboratorio Internazionale di Venezia diretto da Àlex Rigola aprendo così il confronto sulle differenti pratiche pedagogiche interne alla creazione scenica. Il teatro di Tolcachir trasmette vitalità a impatto zero nelle sale indipendenti di mezzo mondo affini alTimbre4, il centro culturale (teatro-appartamento) da lui diretto a Buenos Aires. La sua composizione drammaturgica si allinea inoltre negli equilibri produttivi del sistema commerciale, rendendosi di fatto accessibile a pubblici trasversali. Il suo è un teatro della fragilità, sorretto da sbavature poetiche che non alterano lo spettatore ma, anzi, lo sollecitano a voler scoprire l’incerto permutare delle sue storie, una composizione di mondi che si traducono sempre in dubbio consapevole. Lo abbiamo incontrato alla fine della presentazione aperta di Personajes emergentes: construcción en movimiento presso la Fondazione Giorgio Cini dell’Isola di San Giorgio (Venezia).

Negli ultimi anni ha diretto spettacoli commissionati dal sistema commerciale e indipendente. Il suo approccio è sempre lo stesso nonostante il divario tra l’uno e l’altro ambiente teatrale?
Alla base di tutto c’è solo una cosa: io amo il teatro, l’esperienza e la sfida che mi pone. Il mio habitat ha molto a che fare con le sale piccole di Buenos Aires per cinquanta o cento persone. Mi piace prendere uno spazio e trasformarlo: usare le pareti e le finestre, trasformare la disposizione del pubblico. La possibilità di andare in un teatro grande e commerciale significa sfidarmi, in quel contesto posso provare a raggiungere un’intensità che solitamente si sente nelle sale piccole. Per questo l’opera deve piacermi come gli attori. L’esperienza di teatro commerciale è un’esperienza molto bella. Certo è che la libertà di rischio che si può avere nella propria casa-teatro con gli attori della propria vita è unica rispetto a qualsiasi commissione ricevuta da una grande struttura teatrale.

Lei è uno dei cinque maestri del Laboratorio Internazionale di Venezia: cosa significa trasmettere la propria esperienza – e non solo insegnare un approccio didattico – alla luce del fatto che ha solo trentasette anni?
L’ha detto molto bene. Il teatro non può essere insegnato. Uno trasmette, condivide le esperienze utili che ti hanno fatto crescere e che hanno funzionato. Per me il lavoro più importante per un docente è saper guardare. Non serve a tutto il mondo la stessa cosa. Serve molta acutezza per scoprire quale cammino necessita ad ognuno: un percorso intellettuale o intuitivo scoprendo se “hai paura” o “stai comprendendo”. Ogni volta che mi trovo con la possibilità di condividere la mia esperienza mi chiedo se sarò capace di trasmettere qualcosa e se servirà ciò che sto offrendo. Solitamente questo approccio ha portato sempre a esperienze davvero indimenticabili.

Cosa significa scrivere e comporre scene per il teatro?
Parto sempre da un’immagine o una storia che mi commuove, anche se molto piccola. Una storia che implichi una contraddizione, vulnerabile, non eroica ma criticabile, un miscuglio tra l’equivocabile, il vulnerabile e il fragile. È interessante investigare nell’umanità e nella contraddizione. Uno non può definire una persona o un’azione, perché le azioni hanno sempre moltissimi strati di comprensione. Il teatro fa avvicinare alla propria umanità attraverso i personaggi e il confronto con quel che fanno: m’interessa la loro debolezza e immaturità. Per questo mi piacciono molto i personaggi ambigui.

Da alcuni anni l’Italia guarda nuovamente all’Argentina con interesse esplorativo: sembra quasi che voglia comprendere come poter vivere la crisi esistenziale (oltreché economica) di questi anni. Il teatro in qualche modo assorbe tutto ciò…
Nello stile di produzione sì, la crisi è simile alla vostra ma non per l’aspetto artistico. Suppongo che sia visibile qualcosa nel nostro teatro di profondamente viscerale, emergente e accidentale. Qualcosa che non utilizza le tecniche di produzione e di scenografia convenzionali perchè gioca con la sua povertà. Colloca l’attore in un luogo più attrattivo e allo stesso tempo non solo recitativo. Nel teatro argentino l’attore non dimostra solamente la sua abilità ma difende anche una verità. Forse è questo: incuriosisce l’incontro con un teatro che respira. Il teatro è un atto di amore assoluto nell’incontro tra ragioni al di fuori del denaro e della fama. 

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