Pirata
Dizionario Opera

Pirata, Il (1827)

Pirata: Domenico Barbaja, forte del suo istinto d’impresario, aveva individuato in Bellini, fresco del successo di Bianca e Gernando, un artista di talento. Rilevata, nel 1826, l’impresa della Scala, propose al giovane catanese di comporre un’opera per la stagione autunnale.

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Grazie a Mercadante, allora a Milano, Bellini conobbe Felice Romani: fu un incontro determinante per entrambi. Emilia Branca, vedova Romani, scriveva che «rispondevano tutti e due, nel loro diverso modo di manifestazione dell’intelligenza, ad un medesimo concetto artistico, ad un medesimo complesso di sentimenti, d’impressioni, di affetto».

Bellini comprese subito che per fare musica nuova bisognava affrancarsi dal rossinismo imperante, e tornare al rapporto musica-testo; in questo trovò un valido sostegno in Romani, che vagheggiava anch’egli una riforma del teatro musicale: «mi accorsi che per lui ci voleva altro dramma e un’altra poesia (…) fu allora ch’io feci il primo esperimento del giovane Bellini e scrissi per esso il Pirata , soggetto che mi parve adatto a toccare per così dire la corda più rispondente del suo core, né m’ingannai».

Tale fu l’unità d’intenti, l’affinità spirituale e l’affiatamento, che Bellini rifiuterà qualsiasi altro librettista. Non si trattò di semplice collaborazione, nella quale il librettista si limitava a sfornare versi e il compositore a porli in musica; Bellini voleva vicino il ‘suo’ Romani anche durante le prove, per rivedere i versi, correggerli e limarli, nell’ossessiva ricerca della parola più adatta per esprimere musicalmente un certo sentimento.

Bellini attese alla composizione del Pirata dall’ aprile-maggio all’ottobre 1827. Ben conscio dell’importanza dei cantanti, sapeva che solo scrivendo su misura per gli interpreti (soprattutto per dei grandi interpreti) le idee, le melodie potevano avere l’espressione e l’intonazione giusta, e ogni brano il giusto rilievo.

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Per il Pirata ebbe a disposizione un cast di prima grandezza, ed esemplò le melodie su misura per la Méric-Lalande, Tamburini e soprattutto per Rubini, voce d’angelo: il tenore belliniano per antonomasia. Bellini conosceva già le voci di Rubini e della Lalande, avendo scritto per loro Bianca e Gernando (Napoli 1826).

Le prove furono estenuanti e fonte di continui problemi; Bellini dovette faticare non poco per insegnare la parte, fin nelle minime inflessioni, al virtuoso ma riluttante Rubini, disorientato e sorpreso da una scrittura vocale così nuova poiché ‘spianata’, priva dei melismi e della tipica coloratura di stampo rossiniano, grazie alla quale il tenore riceveva il massimo plauso e il consenso del pubblico; non solo, ma Rubini non poteva limitarsi a eseguire il ruolo, doveva esprimere, comunicare e recitare: in una parola interpretare.

Più docili, e pronti ad adattarsi alle esigenze di Bellini, si dimostrarono Tamburini e la Méric-Lalande. Grande cura l’autore pose anche al coro e all’orchestra, i quali si trovarono non poco in difficoltà per il nuovo stile: «insegnando loro quella morbidezza e quelle gradazioni di colorito, con che il suo stile dovea prendere un’aria sublime e drammatica». Col procedere delle prove e i ripetuti ascolti scomparve ogni perplessità; già si prevedeva un gran successo, ciò che puntualmente accadde.

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Atto primo . In Sicilia, nel castello di Caldora e nelle vicinanze, nel XIII secolo. Gualtiero, conte di Montalto, perduto ogni bene si fa pirata, per vendicare i torti subiti e riconquistare l’amata Imogene. Un gruppo di pescatori tenta di soccorrere i naufraghi di un vascello, che una tempesta ha infranto sulle coste di Caldora; un Solitario li incita. Tra gli scampati c’è Gualtiero col suo compagno Itulbo.

Gualtiero riconosce nel Solitario Goffredo, il suo vecchio istitutore, e subito chiede notizie dell’amata Imogene (“Nel furor delle tempeste”); Goffredo lo nasconde nella sua abitazione, temendo che possa essere riconosciuto. Giunge Imogene col seguito; informata dai pescatori dell’accaduto, interroga i naufraghi nella speranza di avere notizie sulla flotta pirata; ella è turbata poiché ha sognato Gualtiero ferito a morte ed è in preda a oscuri presentimenti (“Lo sognai ferito, esangue”).

Questi da lontano la riconosce e non trattiene un lamento; Imogene ne è colpita e fa in modo d’incontrare il naufrago. Gualtiero si fa riconoscere e nel seguente duetto (“Tu, sciagurato! Ah! fuggi”) Imogene tenta di giustificare il suo precedente matrimonio, contratto solo per salvare il padre, prigioniero di Ernesto.

Gualtiero vorrebbe scagliare la sua ira sul figlioletto che la donna ha avuto dal rivale, ma desiste, commosso dalle lacrime di Imogene. Ernesto ritorna vittorioso dalla battaglia contro i pirati (“Si, vincemmo, e il pregio io sento”) ma trova la moglie afflitta e mesta. Avuta notizia dei naufraghi desidera vederli e, diffidente, vorrebbe trattenerli; ma, grazie all’intervento di Imogene, essi possono partire. Gualtiero chiede un ultimo incontro a Imogene; questa è sconvolta e sviene, ed Ernesto s’insospettisce.

Atto secondo . Imogene confessa a Ernesto di amare ancora Gualtiero (“Tu m’apristi in cor ferita”); il duca, informato della presenza del rivale a Caldora, decide di ucciderlo. Imogene e Gualtiero s’incontrano, questi le propone di fuggire insieme (“Vieni cerchiam pe’ mari”), ma interviene Ernesto che sfida Gualtiero a duello (terzetto “Cedo al destin orribile”).

Ernesto muore, e Gualtiero si offre spontaneamente al giudizio. Mentre il consiglio dei cavalieri si riunisce, Gualtiero si rivolge ad Adele perché difenda la sua memoria presso l’amata (“Tu vedrai la sventurata”). Imogene invoca il perdono del marito (“Col sorriso d’innocenza”); il consiglio condanna Gualtiero e Imogene impazzisce.

Romani e Bellini con il Pirata hanno dato voce e rappresentazione a un sentimento e a una sensibilità nuova; hanno proposto un modello che contrapponeva all’aurea perfezione della forma rossiniana un incedere melodico che, senza infrangere la forma chiusa, ne ampliava però la dimensione, proponendo un periodare non più simmetrico ma vario e irregolare, perché volto a cercare l’esatta corrispondenza della linea melodica con gli accenti naturali delle parole e con la sintassi del testo.

Nel Pirata , però, Bellini è ancora alla ricerca del suo linguaggio personale che troverà, per impiegare una metafora scultorea, ‘per via di levare’ ossia attraverso sintesi e semplificazione, in antitesi a quello di Rossini formatosi per ‘via di porre’. Il mito del ‘bel tenebroso’, di colui che si fa pirata per vendicare i torti subiti e riconquistare la donna che ama, un tema che trae le sue origini da Schiller e da Byron, colpì il pubblico, sedotto dalla passionalità della vicenda, dal suo tragico svolgimento e rapito dalla bellezza del canto.

Il pubblico decretò un trionfo senza precedenti: l’opera fece un vero e proprio ‘furore’. Con il Gualtiero del Pirata , inoltre, nasce il mito del tenore: un mito legato alla voce stilizzata e idealizzata di Rubini, il cui timbro chiaro suggeriva quella purezza di sentimenti, quella lealtà e quel coraggio tipici della giovane età.

L’esito della serata è dettagliatamente descritto in una lettera che Bellini inviò allo zio Vincenzo all’indomani della rappresentazione, sottolineando come tutti i pezzi, compresi la sinfonia e i cori, fossero stati applauditi, concludendo: «infine la scena di Rubini [“Tu vedrai la sventurata”], e quella della Lalande [“Col sorriso d’innocenza”] ha fatto tale entusiasmo da non poterlo esprimere a parole; e, l’istessa lingua Italiana non ha termini come descrivere lo spirito tumultuante che investiva il pubblico, chiamandomi sul palco, e fui costretto per ben due volte uscire sulle scene, come pure i cantanti».

Bellini riuscì a trasformare Rubini da semplice esecutore a interprete, come testimoniano le cronache dell’epoca che non lesinarono gli elogi: «Oh quante ciglia si inumidirono di lacrime! Qui si vide il prodigio dell’arte espressiva del maestro e il trionfo del suo stile declamatorio; qui abbiamo finalmente ritrovato in Gualtiero quel Rubini che sapevamo sommo cantante, e che tutti i fogli di Parigi ci annunziavano inoltre attore egregio nel sostenere il ruolo di Otello». (‘I teatri’, 1827).

E ancora: «Rubini che talvolta trascendeva anch’egli in studiati ornamenti diè bella prova di gusto quando, sull’osservazione di alcuni amatori tolse nella sua bellissima aria del Pirata qualche studiato passo e che la diede tutta soavissima e appassionata quale uscì dalla ispirazione del poeta e del maestro. Abbiamo già detto che fu merito di questo e di quello l’averci presentato Rubini sotto il duplice aspetto di cantante e d’attore». (‘Gazzetta privilegiata di Milano’, 1827).

Per raggiungere questi risultati espressivi, Bellini spinge il protagonista a cantare su una tessitura acutissima, d’altezza astronomica. Gualtiero fraseggia costantemente tra il fa e il la con frequenti puntate al si bemolle3 acuto, toccando più volte, in corrispondenza di momenti sia eroici sia patetici, il do e il re per conferire maggiore enfasi alla frase melodica. Nella monumentale biografia di Cassinelli, Maltempi e Pozzoni Rubini l’uomo e l’artista si afferma che l’autografo del Pirata è un tono sopra rispetto all’edizione a stampa: ciò significa che Rubini fraseggiava costantemente sul si bemolle spingendosi fino al mi bemolle .

L’eccezionalità della scrittura di Gualtiero impose trasporti e adattamenti per gli altri interpreti; si trascrisse addirittura la parte per il registro di contralto, prassi assai comune all’epoca: anche al ruolo di Arnoldo del Guglielmo Tell toccò la stessa sorte.

Rubini cantò più volte il Pirata con la moglie Adelaide Chomel, naturalizzata Comelli, ma Bellini la riteneva inadatta perché o non «azzeccava gli acuti» o suonavano striduli. Il fatto non sorprende poiché la Comelli nasce contralto e si mutò in soprano nell’ultima parte della carriera. Partecipò a due prime rossiniane: Calbo nel Maometto II (1820) ed Edoardo nella versione napoletana della Matilde di Shabran (1821).

Possedeva una gola agilissima, una voce molto estesa nonché la capacità di sostenere tessiture scomode, come dimostra la scrittura irta di difficoltà di “Non temer d’un basso affetto” dal Maometto II , e “Piange il mio ciglio è vero” dalla Matilde di Shabran .

Ma sono qualità insufficienti per sostenere un ruolo di soprano ‘sfogato’ come quello di Imogene, la cui tessitura, troppo alta per i suoi mezzi, doveva stancarla molto portandola a fallire sugli estremi acuti, limitando di conseguenza l’interpretazione.

Dopo le 15 recite milanesi, Rubini replicò il successo dell’opera prima a Vienna poi a Napoli, sempre con Tamburini, ma con la Comelli in luogo della Méric-Lalande. Il catanese tramò, invano, contro Barbaja perché la Comelli non cantasse il Pirata né a Vienna né a Napoli temendo un fiasco che, fortunatamente, non si verificò.

Il cast originale si ricompose, ancora a Milano, nell’estate del 1829 alla Cannobiana, e alla Scala il 9 febbraio 1830 per dodici rappresentazioni. Rubini riprenderà il ruolo di Gualtiero con buona frequenza fino al 1835, preferendo poi volgersi ad altre opere di Bellini, specialmente Sonnambula e Puritani .

Nella ripresa del 1837, al Teatro Riccardi di Bergamo, interpolerà un’aria (“I tuoi frequenti palpiti”) dalla Niobe di Pacini; segno di una crescente difficoltà nell’affrontare il ruolo così come Bellini lo concepì. L’opera non sfuggì alle contaminazioni ed agli accomodamenti tipici dell’epoca: ad esempio la Schröder-Devrient interpolava un’aria dalla Amazilia di Pacini e insisteva per un lieto fine.

È noto l’epiteto che fu affibbiato a Verdi (‘Attila delle voci’), ma anche Bellini ebbe la sua parte di merito; si asseriva che il suo modo di scrivere rovinava le voci. Cogliere realisticamente emozioni e sentimenti significava prediligere l’effetto scenico a scapito di quello musicale, con la conseguenza di non salvaguardare più le voci e la comodità del cantante. La Méric-Lalande si lamentò che dopo il Pirata, ma soprattutto dopo la Straniera , la sua voce si era accorciata; stessa lamentela da parte di Tamburini, additando la causa particolarmente al Valdeburgo della Straniera.

Rubini, dopo il Pirata , non riuscì più a reggere tessiture così acute, tanto è vero che dopo le prime recite di Sonnambula Bellini gli abbassò di un tono l’aria “Ah perché non posso odiarti”; le stesse considerazioni valgono anche per il ruolo di Arturo nei Puritani . La parte è ricca di acuti e prevede addirittura un Fa , ma la tessitura è sensibilmente più bassa del Pirata : quindi Rubini conservò gli acuti, ma perse la capacità di reggere le tessiture acutissime.

Nell’essenziale linguaggio musicale belliniano ogni elemento concorre alla buona riuscita dell’insieme: non vi è nulla di superfluo. Perciò grande importanza assume il recitativo, non più arido riempitivo tra un numero e l’altro, ma forma mobile che da semplice accordo passa, senza frattura, nell’arioso e poi nel brano vero e proprio senza che si interrompa il racconto musicale; si richiedono ai cantanti affinate qualità di accentazione e fraseggio per renderne i complessi significati interpretativi.

Così il coro, che non è più un elemento decorativo, ma fa da indispensabile ponte tra i numeri dei solisti, divenendo parte integrante nel procedere dell’azione e commentando la vicenda.

Un esempio di integrazione fra recitativo e brano musicale è il duetto Gualtiero-Imogene del primo atto (“Tu, sciagurato, ah, fuggi”), preceduto da una scena nella quale si alternano recitativo e arioso; oppure il terzetto nel secondo atto, dove dall’iniziale duetto (“Vieni: cerchiam pe’ mari”) tra Gualtiero e Imogene si trascolora, senza soluzione di continuità, con l’inserimento di Ernesto, nel terzetto all’Andante (“Cedo al destin terribile”), che sfocia nella sfida tra Gualtiero ed Ernesto.

La vicenda si conclude con due squarci lirici di grande bellezza: l’aria di Gualtiero (“Tu vedrai la sventurata”) e la pazzia di Imogene (“Col sorriso di innocenza”) preceduta da un fosco preludio definito «romanza senza parole», e un recitativo di grande espressione. Vi sono inoltre da annoverare nel Pirata reminiscenze e riprese da opere precedenti, soprattutto da Adelson e Salvini : l’ouverture proviene da quella del ’26 di quest’opera; la cabaletta di Gualtiero nella sortita “Per te di vane lagrime” da “Oh quante amare lagrime”, il duetto Salvini-Bonifacio del primo atto.

Quest’ultimo è un tono sopra rispetto alla cabaletta: la tonalità coincide nell’autografo del Pirata , che è un tono sopra, non nell’edizione a stampa. Inoltre l’Andante di Ernesto nel finale primo (“Si vincemmo”) proviene dalla sortita di Adelson nel primo atto (“Obliarti, abbandonarti”); uguale, infine, è il tema orchestrale nella stretta del finale primo di entrambe le opere.

Se Rossini canta in Armida l’amore sensuale senza veli, raggiungendo un apice in tal senso non più superato, Bellini canta nel Pirata la malinconia della passione repressa e inappagata. Il catanese descrive personaggi ai quali è negata non solo la felicità, ma anche il riscatto di quel lieto fine nel quale tutte le tensioni si ricompongono. La frattura qui si risolve solo con la tragedia finale.

Ernesto muore in duello; Gualtiero paga innocente il suo amore; Imogene fugge il dolore chiudendosi nella follia. Gualtiero è eroe fiero ma perdente, perché si oppone, ma senza speranza di vittoria, al fato, come accade agli eroi di Byron. Romani, già nella sortita, descrive con chiarezza le due anime del protagonista: il fiero pirata «Nel furore delle tempeste,/ nelle stragi del pirata» e il malinconico innamorato «quell’immagine adorata/ si presenta al mio pensier». Le tipologie dei personaggi create nel Pirata ritorneranno, con le varianti del caso, nella produzione successiva, quali simboli di un romanticismo che è ancora di là da venire e da compiersi.

Type:

Melodramma in due atti

Author:

Vincenzo Bellini (1801-1835)

Subject:

libretto di Felice Romani

First:

Milano, Teatro alla Scala, 27 ottobre 1827

Cast:

Ernesto, duca di Caldora, partigiano della casa d’Angiò (Bar); Imogene, sua moglie, anticamente amante di Gualtiero (S); Gualtiero, già conte di Montalto e partigiano del re Manfredi, ora fuoriuscito e capo dei pirati aragonesi (T); Itulbo,

Signature:

l.ge.

Conclusione: Pirata: Domenico Barbaja, forte del suo istinto d’impresario, aveva individuato in Bellini, fresco del successo di Bianca e Gernando

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