Milano Art Week
Editoriali

Quando a Milano…

Una grande mostra, a Milano, racconta la città al volgere del nuovo secolo, tra Ottocento e Novecento. Una interessante sezione è dedicata al teatro. Con le foto di Dina Galli, le locandine degli spettacoli di allora, i testi di D’Annunzio, le marionette dei Colla…

Quando a Milano…

All’interno della grande mostra, che si tiene a Palazzo Reale, «Il mondo nuovo», nata per onorare i cento anni della fondazione dell’Università Bocconi, dedicata a Milano fra il 1890 e il 1915, alle sue industrie, alla sua arte, alla sua toponomastica di piccola città che sta diventando grande, alla sua architettura, alla sua arte, alla vita che vi si vive di spumeggiante eleganza e di clamorosa ricchezza o di duro lavoro quando non di miseria, una piccola, ma non per questo meno importante ansa, racconta il teatro di quegli anni. Paradossalmente proprio quando tutto è in movimento, quando tutto sta vorticosamente cambiando, il teatro sembrerebbe inchiodato alla fissità, alla scontata ripetitività di stanche formule.

Non è così: il nitido e intrigante percorso curato da Renato Palazzi ci conduce per mano a scoprire che fuochi e che muse inquietanti covassero sotto l’apparente tran tran di certe fotografie, negli occhi resi fondi dal bistro, nei gesti melodrammatici, nelle pose da film muto.

Perché nella grazia acerba, quasi infantile, di Dina Galli, ritratta in un quadro nel ruolo che la rese celebre, quello di Scampolo, nelle pose plastiche di Oreste Calabresi o di Annibale Betrone nella fragile bellezza di Virginia Reiter, nella presenza scenica di Maria Melato dalla voce d’oro, nei testi del grande Bertolazzi interpretati da Gaetano Sbodio e Davide Carnaghi, c’era un teatro che stava cambiando pelle, epoca, sguardo e che si rispecchiava, talvolta con riluttante timidezza, allo specchio del nuovo secolo nato all’insegna della velocità, del divenire, del cambiamento.

Sbaglieremmo dunque – e Palazzi nel suo lucido saggio nel catalogo edito da Electa che arricchisce la mostra di riflessioni importanti ci racconta perché -, a considerare il teatro della metropoli lombarda a cavallo fra il 1890 e il 1918 come una scena della conservazione.

Qualcosa, infatti, si stava muovendo e c’erano già tutti i germi che avrebbero di lì a quarant’anni definitivamente chiusa l’epoca e il mito del grande attore.

Eppure a quei tempi il dominio dell’interprete sembrava intoccabile tanto che chi scrive di teatro, chi racconta il teatro, chi va a teatro concentra la sua attenzione essenzialmente sul lavoro dell’attore. Eppure in Europa già si era affermata la rivoluzione naturalista che aveva significato attenzione più profonda alla società, al mondo del lavoro, alle condizioni di vita dei personaggi, che aveva portato all’affermazione necessaria e creatrice del ruolo del regista.

E le tournée a Milano di André Antoine ma anche della «divina» Sarah Bernhardt che non disdegnava di recitare in parti maschili testimoniavano proprio questo sguardo europeo, questa ventata di novità di cui il teatro milanese era curioso. Anche in Italia, a Milano, dunque il naturalismo (che si chiamò verismo) aveva i suoi cultori, i suoi maestri e i suoi interpreti.

Ma mancava del tutto quella rivoluzione copernicana che sarà la regia, che si affermerà solamente dopo la Seconda guerra mondiale con grandi maestri come Orazio Costa, Luchino Visconti, Giorgio Strehler. Per fortuna c’era la Duse con il suo febbricitante attivismo, con la sua ricerca infaticabile di un nuovo teatro, con il coraggio che la spinse a mettere in scena i drammi profondi di un norvegese che era da noi come un sorvegliato speciale, Henrik Ibsen.

Eccola con le mani giunte e il viso ispirato in Rosmersholm o stancamente abbandonata su di un divano in Hedda Gabler. E per fortuna c’era l’immaginifico Gabriele D’Annunzio, il suo teatro di poesia, i suoi personaggi prigionieri in una rete inestricabile di parole, l’eleganza e l’accuratezza degli spettacoli nati dai suoi testi, le sue atmosfere rarefatte e perfino inquietanti mentre cominciava a muovere i primi passi un teatro che tendeva a scardinare come una bomba il triangolo della commedia borghese: quel grottesco espressionista che trovò in Pirandello e in Rosso di San Secondo le sue punte emergenti, lontane le mille miglia dalle realizzazioni dannunziane.

Accanto a questa scena «alta» la sezione dedicata al teatro ne documenta, molto opportunamente, altre: il caffè concerto, le esibizioni di Fregoli, il circo (c’è un bellissimo manifesto del circo con indiani e cavalli guidato da Buffalo Bill), le marionette dei Fratelli Colla, i manifesti con i loro «strilli» pubblicitari che portano in alto i nomi di teatri che non esistono più, la fotografia che mostra la sala affollatissima di pubblico in piedi di un Teatro del Popolo nato nel 1911, su idea della Società Umanitaria, per portare il bello, l’arte anche fra il popolo, finora escluso da quel mondo.

Giustamente la mostra sottolinea come in quel teatro d’arte e popolare ci fossero già i primi semi di quello che trentasette anni dopo sarà la motivazione profonda della nascita del Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Ma questa è tutta un’altra storia. (11 novembre 2002)

Nella foto, l’opera di Marius (Mario Stroppa) il viale tra Milano e Monza per il progetto del Quartiere industriale Nord Milano (1909), esposta nella mostra milanese «Il Mondo nuovo. Milano 1890/1915» allestita a Palazzo Reale fino al 28 febbraio 2003

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