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Sanremo 2007: fiori dall’oltretomba

Fenomenologia dell’eterno ritorno canoro Una scatola vuota, un eterno ritorno di immaginario collettivo nell’impossibilità di produrne del nuovo, una parata di attori della dialettica “nulla è cambiato vs. nulla può cambiare” che svela la sua faccia gattopardesca rassicurante-inquietante.

Non facciamo più figli, desideriamo la pensione a quarant’anni, siamo sempre quelli che si stava meglio quando si stava peggio; Sanremo è quello stare peggio.

Baudo sa che le leggi passano in Parlamento grazie ad Andreotti, il Presidente della Repubblica e il Papa sono anch’essi gente matura.

Sa di essere immortale grazie al suo nemico di sempre, Mike Bongiorno, lo vuole per questo, per suggergli linfa vitale, entrambi simbolo dei tarallucci e vino nazionali, dell’amore-odio, dei mille Peppone e Don Camillo, del trasformismo inventato già nell’800, del volemose bene vero o finto, dell’odio vero o finto, dei mille compromessi soprattutto non storici.

Il disegno cela una perfidia e crudeltà sotterranea, un sadismo nascostamente compiaciuto dell’immolarsi dei pupi siciliani da lui manovrati.

Sembrano lontani i tempi in cui Dorellik balzava con agilità felina dagli armadi; Johnny è giusto al bivio tra crooner e coroner.

Gianni Bella in versione manichino di legno senza fili, intona “Per sempre” con sua sorella; la vera famiglia come quella Facchinetti, in barba a ogni possibile e immaginabile assortimento di Pacs.

I resti delle Supremes con parrucche leonine a noleggio, molte taglie più di una volta nei loro completini cachi, a fare il resto, a portare a compimento il disfacimento, l’abbandono, la tragedia del tempo che passa.

Un Paese semi-dormiente scosso e chiamato a raccolta dalla potentissima ugola di Al Bano; il suo perdono è una delle poche cose che Ruini si sentirebbe di controfirmare Ruini.

Max Tortora condivide la finissima strategia conducendo sul palco il vero simbolo dell’epicità dell’antieroe, del crollo dell’essere umano, dell’ultima possibile fermata della dignità prima di un ipotetico capolinea salvifico; il suo Califfo monumentale rimargina in parte la ferita dell’accantonamento dell’originale.

Un grottesco podio tutto fiori, Dio e amore svetta lancinante. Arrivano i titoli di coda.

Nella serata conclusiva ecco il piano malvagio portarsi a compimento, il passo che ci rende più chiaro il delitto etico; la strage, la morte artistica di gente sacrificata sull’altare dei signori nessuno di turno, i Cristicchi, Mazzocchetti o Meneguzzi a pasteggiare avidi sulle spoglie, la morte in diretta reiterata ed esibita, crivellare di colpi un corpo già esanime.

Unico highlander Al Bano, reso immortale nella coscienza popolare, fino al prossimo futile gossip, dalla luce riflessa della infame vicenda Lecciso.

Ed è qui che la parata della compassione diventa parata dell’orrore, che si apre l’abisso etico, ma si lancia in orbita il gradimento estetico.

Iene.

I detrattori sono serviti; il Festival rimane il più affascinante e sinistro contenitore vuoto, il corridoio buio lynchiano dentro il quale si avventurano star decadute.

Questo è stato il Sanremo del non ritorno.

Il dado è tratto, non resta che un’unica possibile logica conseguenza; il (tra)passato remoto sublimato dai potenti mezzi del futuro, la trascendenza verso l’eterno.

L’ologramma di Modugno a cantare una nuova struggente melodia; il ricordo più vivo finalmente farsi presente pulsante, più di ogni fittizio e indifeso cantante vivente. (frank solitario)

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