Dizionario Opera

Atlàntida

Ad Atlàntida de Falla lavorò dal 1927 sino alla morte, sopravvenuta nel ‘46, come all’opera che avrebbe significato il coronamento dell’intera parabola del suo itinerario umano e stilistico: celebrazione dell’amore sconfinato per la Spagna dalle sue origini favolose alle gesta marinare di Colombo, testamento di sincera spiritualità cristiana e assieme professione di un credo musicale di cristallina classicità, proteso nel culto dei grandi polifonisti iberici del Rinascimento. Ma le precarie condizioni di salute del compositore, gli sconvolgimenti della guerra civile spagnola che lo amareggiarono profondamente inducendolo a un volontario esilio in Argentina e non da ultima la maestosa ampiezza del progetto, congiurarono nel lasciare la sua fatica incompiuta; sarà l’allievo prediletto Ernesto Halffter a ultimarla, mediante un cospicuo lavoro di completamento e di orchestrazione delle molte sezioni lasciate in abbozzo. Nel ‘26, in occasione del cinquantenario della scomparsa del poeta catalano Jacint Verdaguer, Falla restò sedotto dall’afflato epico dei suoi versi. L’anno dopo confessò che la ‘cantata scenica’ era il progetto cui più di ogni altro attendeva con entusiasmo: « Atlàntida è stata con me fin dai giorni della mia infanzia. A Cadice, dove sono nato, l’Atlantico mi si offriva alla vista oltre le Colonne d’Ercole, e la mia immaginazione volava verso il più bello dei giardini delle Esperidi». Il poema di Verdaguer, testo peraltro appesantito da scoperti simbolismi, si proponeva infatti di ricondurre le origini della Spagna ai miti di Atlantide.

L’evocazione di questa storia favolosa, svelata a un Cristoforo Colombo fanciullo che ha fatto naufragio su un’isola deserta dal vecchio saggio Corifeo, occupa la prima e la seconda parte della cantata. Vi si narra di Ercole impegnato nella lotta contro il mostro Gerione in difesa della regina Pirene, nonché nella fondazione di Barcellona e nell’uccisione del drago posto a guardia dell’albero dai frutti d’oro del giardino delle Esperidi. Atlantide, regno dei Titani, si ribella allora a Dio che di conseguenza l’annega in un novello diluvio; ma erigendo le colonne che portano il suo nome, Ercole salva dalla distruzione la Spagna, il suo estremo lembo orientale. Nella terza parte troviamo Colombo incoraggiato a partire per il fatidico viaggio da un sogno profetico della regina Isabella e dal suo fiducioso volere. Colombo salpa verso una nuova Atlantide; «nel silenzio augusto della notte suprema» commenta la mistica voce del coro conclusivo, egli è il solo a vegliare in preghiera sul ponte di comando ormai in vista della terra agognata, la «cattedrale hispanica».

Atlàntida è l’utopia di Falla, e come in tante utopie anche la musica incappa talora nei passi falsi della magniloquenza retorica e dell’ottimismo di un’ingenua teleologia storica. Se a tratti è difficile riconoscervi il musicista sobrio e asciutto del Retablo de maese Pedro , specie in certe massicce sezioni corali gonfiate dal supporto di un’orchestra rutilante di ottoni e di percussioni, non mancano gemme di raccoglimento intimistico e arcaizzante che riscattano gli empiti dell’enfasi più stentorea. È il caso del suggestivo coro di apertura del prologo (al quale Ernest Ansermet assegnò addirittura la palma della «più bella sequenza di accordi della musica contemporanea») e di alcune pagine di rarefatta dolcezza modale, impreziosite da sfumature meliche neogregoriane: la dolorosa, quasi monteverdiana aria di Pirene nella prima parte e la delicata romanza di Isabella nella terza.

Atlàntida è in effetti un’opera o un oratorio? Responsabile dell’ambiguità è il compositore stesso, che in un primo tempo aveva pensato a un allestimento scenico e l’aveva affidato a un altro catalano illustre, il pittore Josep Maria Sert. Dopo la ‘prima’ in forma di concerto (Barcellona, 24 ottobre 1961) e quella scaligera, con la direzione teatrale di Margherita Wallman e di Thomas Schippers, seguirono alcune riprese teatrali nel corso di quell’anno e del successivo. L’idea di trovarsi di fronte a un oratorio tornò da allora in poi a prevalere, suffragata anche da un più accurato vaglio dei documenti inediti e della corrispondenza del compositore, ove al lavoro di Sert si accenna come a un aspetto meramente «decorativo» nell’ambito oratoriale dell’esecuzione. D’altro canto una componente scenografica, anche se di incerta presenza e di problematica realizzazione per l’imponenza degli organici e degli apparati richiesti, sembra esser stata quantomeno vagheggiata da Falla. Suggestiva è in particolare la sua indicazione delle famose rovine peruviane di Macchu Picchu, quale solo modello degno di stimolare una scenografia evocativa delle architetture della perduta Atlantide: tragica ironia del destino per quelle popolazioni andine e amerinde, che da esploratori e conquistadores hanno subito e ricevuto tutto, fuorché una sola briciola di spirito cristiano.

Type:

Cantata scenica in un prologo e tre parti

Author:

Manuel de Falla (1876-1946)

Subject:

libretto proprio, dal poema omonimo di Jacint Verdaguer

First:

Milano, Teatro alla Scala, 18 giugno 1962

Cast:

Corifeu, un vecchio (Bar); Cristoforo Colombo fanciullo (S); Pirene, regina di Spagna (Ms); Gerió el Tricèfal, creatura mostruosa (S/T/B); Aretusa (S), Eriteia (S), Maia (S), Caieno (Ms), Electra (Ms), Esperetusa (Ms), Alcyone (A), le sette

Signature:

m.p.

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