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Il Fieno, una storia segreta di Ponza: prima parte, di Giuliano Massari

Una storia segreta di Ponza: il Fieno

“Il Fieno: una storia segreta di Ponza” è il libro pubblicato su Mam-e.it di Giuliano Massari architetto originario di Roma che dagli anni 50 frequenta l’isola di Ponza.

Il Fieno, una storia segreta di Ponza: prima parte, di Giuliano Massari

Nella mappa di anonimo denominata Isole di Pontio, del sec.XVI, proveniente dall’Archivio Farnesiano di Napoli (V. Bonifacio, op. c. pag. 53) la lingua di terra che dal monte Guardia degrada verso Palmarola, esposta ad ovest, è chiamata Punta del Fieno, forse perché nei tempi andati vi si coltivava il grano o (Giosuè Coppa) dall’erba fatta seccare per pastura agli animali.

Il Fieno è una frana geologica che si formò circa 1 milione e 200.000 anni fa, nel periodo dell’ultima eruzione del vulcanismo medio tirrenico.

Sul banco di riolite, un magma molto fluido, di grande viscosità, che si raffredda al contatto col mare assumendo caratteristiche petrografiche e di colorazione diverse, ricadde parte dell’intrusione trachitica che, dalla sua parte più alta, l’odierno Monte Guardia, ha determinato una enorme frana. I blocchi frantumati della trachite basaltica hanno formato le scogliere che circondano tutta la frana estesa verso il mare.

(A.De Luca, PonzaRacconta, 2011)

Pochi anni fa inoltre, fu prelevata una gran quantità di massi sul fondale marino, e ciò ha provocato una veloce accelerazione dei movimenti franosi con evidente arretramento delle scogliere e quindi della costa.

È stato, questo, un atto di irresponsabile vandalismo delle istituzioni competenti, uno sciacallaggio ambientale, che senza adeguata eco mediatica si è svolto in silenzio e – malgrado l’allarme di pochi – è passato presto nell’oblio. Visto da mare appare come un triangolo con la base in alto, compreso tra la baia di Chiaia di Luna, a sinistra e la Scarrupata ‘i fore o meglio ‘a vanna ‘i fore, quella che finisce con lo sperone del faro della Guardia, a destra.

Ma subito prima del Faro, esposta a pieno mezzogiorno, in una sella ripida, costellata di macigni rotolati dalla montagna, rimangono le tracce rigate delle parracine di una delle più antiche ed incredibili vigne di Ponza.

Non aveva approdi, era raggiungibile soltanto via terra, per un buon tratto con il percorso del Faro. Peppe ‘e Emiliano Mazzella della località dei Conti, bisnonno della farmacista Antonella, ne era stato, finché ha potuto ed aiutato dai parenti, il vignaiuolo. Un lavoro bestiale, in solitudine, vicino non c’era nessuno, solo con la compagnia dell’asino. Insostenibile.

E qui al Fieno, il concessionario Pietro Migliaccio, pare desse inizio ad una nuova vita, dedicandosi con i suoi familiari in particolare all’impianto di vite da vino. Ma dovevano soprattutto pensare a nutrirsi.

E piantarono cereali, verdure e alberi da frutto. Con l’aiuto degli altri assegnatari Scotti, Coppa e Mazzella e poi dei coatti relegati nell’isola cominciò a terrazzare il terreno, in pendenza come del resto tutta l’isola, con muri a secco di pietra lavica molto resistente ma difficile da lavorare.

Gli enormi massi venivano spaccati e ridotti in pietre più piccole e facili da trasportare e posizionare. Come tutte le murature di grosso spessore, anche le parracine del Fieno, larghe circa un metro, si formavano con pietre grandi all’esterno (puoje) e riempimento di pezzame minuto ed altro all’interno (mérne). Nelle nuove parracine ed ancora oggi quando le vecchie si menano, era opportuno impiantare la vite al suo interno, così che immersa nella maggior terra potesse ricevere più acqua.

(A. De Luca, sito c.,2011)

Questi muri a secco in pietra trachitica del Fieno contenevano e trattenevano la poca terra dove venivano piantate le vigne, vanno riguardati come un monumento dell’epoca borbonica, sia per la manifattura architettonica, sia per il durissimo lavoro che l’uomo fece per strappare la roccia ai grossi blocchi di lava (…)

I resti di tali opere, dai muri a secco ai ricoveri, alle cantine, alle porte ed ai lucchetti, testimoniano oggi la sapienza degli artigiani provenienti dalla capitale borbonica. Nella parte volta a nord, affiorava un banco di riolite bianca, ‘a taglimme, facile da lavorare ed idonea alla costruzione di cantine e rifugi per uomini ed animali. Fu grazie a tali caratteristiche del territorio che iniziò l’antropizzazione della zona.

Ancora oggi, e soprattutto da mare, è individuabile un sentiero che dall’alto serpeggiando tra la vegetazione, si collega in orizzontale alle grotte/cantine e scende fino al mare, abbascio ‘i parate verso sud e abbascio ‘i cantine verso nord.

E laggiù in fondo, dint’a ‘i parate, in una mappa acquarellata del sec. XVI, riproposta da V. Bonifacio (op.c., p.52) compariva un piccolo fabbricato quadrato che nel 1808 fu sostituito dal Ridotto del Fieno, una batteria di difesa progettata dal tenente borbonico del genio Carlo Afan de Rivera. Nel 1928, ai tempi del confino politico fascista, fu sostituito da un edificio per il corpo di guardia. Abbandonato, divenne l’alloggio dei conigli di Adalgiso Coppa. Fu poi ristrutturato da un privato.

Quasi tutte le grotte erano composte da una vano, raramente due, di circa trenta metri quadrati e spesso con un abbaino di areazione realizzato con una grossolana muratura. Con la riolite si facevano anche dei blocchi per costruire i primi ricoveri per attrezzi, per la conservazione del vino e per il ricovero degli animali. Si scavò in questa tenera roccia per realizzare anche le vasche per la pigiatura dell’uva e la raccolta del mosto, i palimiénti. Furono inoltre scavati pozzi per la raccolta dell’acqua piovana e, vicino a queste cisterne, piccole vasche per sciogliervi il verderame e la calce.

Ad un’altezza circa di 200 metri dove iniziano i terrazzamenti e dove si incontrano i due corpi lavici, dove oggi c’è ‘u cieuzo, una pianta di gelso, esiste una falda freatica che durante la stagione delle piogge si riempie e dai blocchi di trachite fuoriesce acqua limpidissima. Già dal secolo scorso, con un sistema di tubi, quest’acqua riforniva tutti i pozzi delle cantine e riempiva le cisterne disseminate ovunque nel territorio.

L’acqua risulta potabile e leggerissima, in assenza totale di carbonato di calcio. Inoltre anche a pochi metri dal mare, ai bordi della scogliera di sud, per quasi tutto l’anno scorre un rivolo continuo di quest’acqua, più abbondante in inverno.

(F. De Luca, Per i vicoli di Ponza, pp. 38,39)

Nel tafferuglio invasato, sollevato dai “patrioti” mazziniani, si compì un misfatto “civile”. I liberatori condotti da Pisacane, insieme ai prigionieri liberati dalla galera borbonica della Torre, assalirono gli Uffici della Pretura sulla “loggia del Giudicato” e bruciarono tutti gli incartamenti. La “nuova Italia” libera doveva nascere vergine e intonsa, non inficiata dalle colpe del regime borbonico. Così, tutta la storia “civile” della comunità edificata dai coloni fu bruciata.

Nei racconti di Giustino la terra del Fieno era stata fonte di sostentamento per una decina di famiglie, per una comunità di quasi cento persone e pertanto veniva utilizzata e curata in ogni suo angolo. L’ordine e la pulizia rendevano di più e costavano meno fatica. Nel tempo necessario al fuoco, le pratiche dei coloni fondatori e di tutto quanto contribuì alla costituzione della comunità isolana di Ponza divennero cenere. La memoria fu cancellata.

Con essa fu persa la trama dei rapporti civili intessuti fra i singoli coloni, fra loro e le autorità locali, fra queste e la sede centrale di Napoli. La cronaca “civile” della comunità dell’isola di Ponza venne distrutta. Proprio tutta? No. Rimasero intoccati i registri della Parrocchia SS. Silverio e Domitilla.

Essi non subirono affronto. Nonostante fossero stati lasciati incustoditi dal parroco don Giuseppe Vitiello che fuggì sopra gli Scotti, travestito da donna, mescolato tra i familiari di Carmela Jacono. Pomeriggio del 27 giugno 1857. Gli uffici parrocchiali non furono toccati. Da essi si possono trarre conoscenze sui battezzati, i comunicati, i cresimati, gli sposati, i morti. E insieme, i vincoli parentali, i mestieri, lo stato sociale. Insomma il vissuto sociale della comunità dal 30 ottobre 1734 sino ad oggi, filtrata dagli obblighi religiosi. Aiutano, inoltre, gli Archivi della Diocesi, l’Archivio dello Stato borbonico a Napoli.

Eppoi? E ricordava che ancora suo nonno e poi suo padre, come tutti i contadini, anche quando ebbero un alloggio in paese, non perdevano il tempo per andare a lavorare al Fieno, ma vi si trattenevano per sei giorni alla settimana. Le mogli o i familiari provvedevano a portare i pasti agli uomini che soltanto il sabato sera tornavano a Ponza per trascorrervi la giornata festiva. E questa è la ragione di alcune grottelle, asciutte, ben curate e con vicino una cisterna idrica dove, meglio che nella cantina, si poteva riposare e provvedere a qualche comodità.

Il covino apparteneva a Giustino Mazzella da almeno tre generazioni. Lungo i filari di vite si raggiungeva la porzione di mezzo. Uno spazio affatato (G. Massari, egguddemonin!, p.30) (…) non lontano da una grande pianta di alloro, in uno spazio arcadico dove le Driadi potevano ballare libere dalle vesti, ombreggiato da frondose alberature tra le quali un susino che dava delle eccezionali “còss’e monaca”. Lì, nella parete di roccia, si apre l’ingresso al covino; un ambiente ricavato dalla montagna, bianco, dove la luce dell’esterno evidenzia la texture delle superfici, morbide per gli strati di calce che ancora non riescono a nascondere del tutto le unghiate del piccone.

Vi sono scavate delle piccole nicchie, in ognuna delle quali trovano posto gli oggetti: uno specchio, il pennello e il sapone per la barba, un portacandele, una lampada a petrolio, un’immagine di s. Silverio e qualche utensile da cucina e da lavoro.
Posto in mezzo, nell’ordine e nella assoluta pulizia, il letto alto, col vecchio sacco riempito di “sbréglie”, le foglie che avvolgono la pannocchia del granturco, con sopra le coperte e con le quattro zampe infilate in contenitori pieni d’acqua per evitare salite di insetti.

La produzione del vino era ed è difficile da quantificare. Le testimonianze parlano di grossi quantitativi di rosso ma anche di bianco e di uno spumante dolce fatto di uva rossa messa ad appassire al sole, pigiata e filtrata attraverso panni di lino.

Le uve allora erano per ‘e palumme o palombina che veniva da Ischia, primitivo di Manduria importato dalla Puglia da contadini/pescatori ponzesi, e poi l’aglianico del Vulture, sia verace che sanseverino, il greco nero, la guarnaccia e alcune uve bianche come la malvasia, quella che i contadini del Fieno chiamavano mantuonica, un tipo di biancolella più piccola e amarostica che veniva mischiata alla malvasia per fare lo sfumante e la biancolella di Ischia (cfr. Atti del Reale Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli). Le uve venivano trasportate a spalla su per i terrazzamenti, dove possibile con gli asini, fino ai palmenti, i palemiént’ , le vasche scavate e di muratura, dove venivano pigiate con i piedi e messe a macerare per alcuni giorni; il mosto veniva poi trasferito per caduta nelle vasche sottostanti e le vinacce pressate con un torchio di legno composto da un palo di legno che, ficcata una estremità nella parete, faceva da leva con un grosso masso appeso alla estremità opposta. Il mosto veniva quindi messo nelle botti: si trattava di un vino non trattato quindi di breve durata anche se spesso, una volta in bottiglia, si poteva mantenere per qualche tempo. La torchiatura veniva conservata a parte e poi spesso, allungata con l’acqua veniva data da bere ai lavoratori durante la fatica: si trattava della cosiddetta “saccapanna”, un vino molto leggero, ma che dissetava e asciugava il sudore, come raccontano ancora gli ultimi contadini. Raccontano che alcuni anni dopo fosse coltivata soprattutto uva rossa da taglio il cui mosto veniva caricato su imbarcazioni a vela che arrivavano fino abbasc’ i cantine. La gradazione era sempre intorno ai 15°.

(A.De Luca, sito c., 2011)

Riguardo alla storia del vino di Ponza, la letteratura ci viene in aiuto in quanto molti autori del ‘Grand tour’ e viaggiatori destinati a Capri ed Ischia, passando per le isole Ponziane ebbero modo di degustare il vino del Fieno e lo descrissero come un vino dalle stesse caratteristiche di quello delle isole Flegree: l’asprezza e l’acidulo propri dei vinifatti artigianalmente in presenza del mare e dalla problematiche che da esso derivano. Dopo circa settanta anni, (CSDIP, o.c.,p.83) (…) la “città” dove vivevano, come notò Conrad Haller nel 1822, poco più di trecento abitanti, compresi i soldati e le autorità civili eminenti quali: il Governatore, il Curato, il Commissario di Dogana, il farmacista, il fornaio e due o tre bottegai. Il resto della popolazione dell’isola è sparsa su tutta la superficie, ma fuori dal paese, non c’è che un piccolo numero di case (…) perché i paesani sono tutti trogloditi.

(Corvisieri, op.c., p.41)

A Ponza, un poco alla volta, si delineava il processo formativo di uno strato privilegiato attraverso l’incontro delle autorità locali, maneggiatrici del pubblico denaro o detentrici del potere repressivo, con i coloni più abbienti, ed in particolare con quelli, ancora pochissimi, che possedevano una barca per pescare e trafficare. Tricoli presenta nel suo testo una tabella (p.236) dove vi figurano 5 grandi possidenti, 30 medi e 170 piccoli, che potrebbe essere letta ed interpretata in base all’uso invalso nell’isola in discapito della pubblica economia, che tutti i figli passano a matrimonio, essi presto si veggono circondati da numerosa figliolanza, col suddividere così quella proprietà, fino a minime frazioni… E da qui il detto “Sparte ricchezza e te truove povertà”. Ma quella identità che il Fieno aveva raggiunto nel sec. XIX e che riuscirà a mantenere anche oltre la metà del secolo successivo, quando apparve chiaro che quei terreni erano fruttuosi ed ogni possessore si organizzò per massimizzarne i frutti, fosse il vino, fossero gli ortaggi, il lino oppure il semplice fieno, da coltivare giù, nella piana a livello del mare, era destinata a finire. I sopravvenuti smembramenti della proprietà iniziale fra i componenti familiari dimezzarono anche i prodotti di cui godere. Per cui il territorio subì, specie nei due dopoguerra – anni ’20 e anni ’50 – un abbandono prima per emigrazione e poi per il successivo impatto con la nuova realtà del paese che non poteva prevedere ricambi a quella economia.

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