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Il Fieno, una storia segreta di Ponza: terza parte, di Giuliano Massari

Una storia segreta di Ponza: il Fieno

“Il Fieno: una storia segreta di Ponza” è il libro pubblicato su Mam-e.it di Giuliano Massari architetto originario di Roma che dagli anni 50 frequenta l’isola di Ponza.

Il Fieno, una storia segreta di Ponza: terza parte, di Giuliano Massari

Ancora una volta devo a questi amici la mia presenza al Fieno. Come avrei potuto avere l’acqua nelle cisterne della cantina e della grottella senza il loro aiuto? Esiste ‘u cieuzo, una pianta di gelso.
Lì vicino, un grosso masso trachitico da dove usciva l’acqua limpida e leggera (…) Si trovò una falda acquifera a circa 200 metri dal livello del mare che in inverno, con Ie piogge, si riempiva. Ancora oggi tutti i contadini, con un sistema di tubi di gomma, riernpiono il proprio pozzo e quest’acqua la si beve, è molto leggera in quanto priva di carbonato di calcio (A.De Luca). Anticamente l’acqua era immessa in un canaletto a cielo aperto. Ancora oggi, dove l’acqua finisce a mare, sono state prese delle spigole che amano l’acqua dolce. Pensavo al mio mondo di lavoro ed alla impotenza di opporsi alla volgare e scellerata conduzione del nostro paese. Nel novembre 2013, avevo letto su “PonzaRacconta” una interessante ricostruzione, fatta da Vincenzo Ambrosino, sulle attenzioni di Gabriele Panizzi, assessore alla regione Lazio prima e poi presidente della giunta stessa, per l’amministrazione ponzese.

Sono stato tentato di chiedergli, come partecipe e testimone di numerosi incontri ” in cantina”, un ricordo da inserire tra quei fatti che vengo annotando perché, nella storia di questo periodo del Fieno, dovrebbero trovare posto anche quelle giornate quando in cantina si parlava di futuro. Ma è stato bene averlo evitato, perché ancora una volta saremmo tornati a parlare della situazione attuale e a cedere all’impulso di adoperarsi. Pensieri che capita spesso di dover frenare perché l’età non può permettere. Ci sono idee, convincimenti e modi di essere che irridono la ragione, soltanto sopiti e pronti a riaffiorare che rinviano al altro tempo, ad una strada già percorsa. Noi, giovani, ci abbiamo provato nel 1948. Cresciuti di età e diversi, ci abbiamo riprovato quindici anni dopo. La bolla ci è scoppiata violentemente addosso e sentiamo ancora il rumore. Ancora oggi alcuni ricordano con emozione di quando videro la grottella. Come bambini che vanno sotto un tavolo, una tenda o una capanna inventata dove si sentono difesi, così fu la reazione davanti a quel rifugio.

Decidemmo di portare da Roma due pesantissimi letti in ghisa che meglio avrebbero resistito all’umidità del posto. Peppe ‘u cafòne con il suo asino ne caricava una alla volta, per un tratto di via, poi li lasciava per fare un altro tratto, dopo qualche giorno, a tempo libero. Era come al solito impegnato in troppe faccende. Finalmente, dopo quasi due mesi, arrivarono a destinazione. Intanto provvedemmo ai lavori essenziali di falegnameria, la porta della grottella e lo sportello della cisterna e poi alla biancheggiatura a calce delle pareti e alla verniciatura del pavimento con una resina bianca, una novità che mi avevano suggerito. Non dimentico la fatica per salire da mare con il bidone di questa vernice. Si era pensato anche all’arredo che avrebbe dovuto essere rigorosamente di colore azzurro. Ed allora arrivarono candelabri, posacenere e altri cocci di questo colore. Per chi avesse guardato un giorno il percorso verso il Fieno, avrebbe visto una carovana di gente in fila indiana: portavano in spalla, in testa o in qualunque altro modo, materassi, cuscini, coperte, e tutto quello che si riteneva necessario per dormire nella grottella, ma il desiderio di tutti era addormentarsi nel silenzio delle stelle. Perché sapevano che dietro c’era la grottella. E’ come andare in Africa organizzati per sentire i rumori del deserto, il ruggito del leone o il ringhiare della iena. Dietro c’è il resort.

Una volta il mio diletto amico Emilio, medico dentista e poeta, mi chiese di poter rimanere a dormire nella cantina. Ancora non c’era la grottella. Gli dissi dei problemi che avrebbe potuto incontrare:

– Non c’è luce. Non ti preoccupare, mi faccio un lumino con uno spago imbevuto d’olio.

– Non c’è letto, ci sono soltanto dure panche. Non fa niente, voglio vivere una notte al Fieno. E poi forse non avrò sonno.
Fa come vuoi. Ciao.

La mattina lo trovai seduto sulla soglia della casa che abitavo a Giancos. Non aveva retto e di notte era tornato a Ponza! Anche Antonello decisedi passare la notte al Fieno. La mattina, arrivando in barca, vedemmo un corpo sdraiato su uno scoglio dove era comparso il sole da dietro il monte Guardia.
Era lui che all’alba era sceso a prendere calore! (p.47). Non tutti i vini Doc sono vini di qualità mentre molti vini contadini possono rivelarsi di gran classe (R. Di Corato). Quello detto “contadino” riguardante le produzioni minori che non abbisognano di disciplinare, è molto spesso di ottima qualità, ma con tutte le debolezze e i difetti dei vini di sola uva. E’ un vino “casalingo”, di piccolissima produzione, proveniente da secoli di viticoltura contadina e artigianale che poteva comprendere anche quello del Fieno.

Si tratta di quei vini la cui genuinità e semplicità ancora rallegrano, che accompagnano il convivio e ‘a marènna ma che evidenziano le diversità tra uno stesso vino, che varia di anno in anno, da vigna a vigna, da vignaiolo a vignaiolo. Il bevitore è il giudice della bontà e genuinità di ciò che beve. Ancora meglio è il suo orga- nismo, dagli organi del senso a quelli della digestione.

Deciso a vinificare secondo la tradizione locale ho iniziato a consultare dei manuali di enologia per saperne qualcosa di più e che ritenevo di dover comunicare ai miei amici. Non lo avessi mai fatto! Nonostante l’innata cortesia i miei “ospiti ” non soltanto non condividevano le notizie che venivo derivando dai testi ma mi sorridevano con ironia, anche se avvertivo che qualche dubbio serpeggiava e faceva vacillare le loro convinzioni (p.39). Finchè un giorno decisi una convocazione nella mia cantina.

Questo è il capitolo più delicato perché tratta di me, un estraneo, fino ad allora assolutamente sprovveduto della materia che, con apparente presunzione, propone delle “novità” che confliggono con un procedimento di vinificazione, motivato da tante buone ragioni, che un gruppo di vignaioli segue da generazioni, anche se, ognuno di loro, nel segreto della propria cantina, apportava delle piccole varianti tecniche che ancora spiegano anche le diversità del loro prodotto. AI Fieno si vinificava in rosso. Era una tradizione forse secolare, quando i mosti di alta gradazione, venivano venduti per il taglio.

Questa vinificazione consisteva nel far bollire l’uva con le vinacce nel palemiènte, palmento.
Non volendo fare le follature per il timore che l’acetosa del cappello si potesse estendere al mosto, non tenendo conto delle condizioni climatiche e sconosciuto l’uso del mostimetro, spesso s’ammuttava prima del tempo. Per quanto ne so si procedeva “a sentimento”, era consuetudine far bollire il mosto per tre, quattro, al massimo cinque giorni. Forse questa è una delle ragioni per le quali i vini ponzesi e del Fieno erano molto spesso dolciastri e sapevano di spunto (p.53).

Al Fieno la pigiatura avveniva accumulando nel palmento le vinacce che venivano tompàgnate, di solito con un tondo di botte su cui agiva una pressa, mossa come una leva, dal braccio di lungo palo di legno, che aveva il fulcro in una sede nel muro mentre dalla parte opposta era caricata con una grossa pietra, la pietra torcia. Avevo portato in cantina un torchio. A mano era faticoso e la prima volta fui aiutato da Benito che era molto forte e dalla curiosità di Ninotto. Il contributo era dovuto di sicuro all’amicizia ma con altrettanta certezza all’interesse per lo strumento. Il sistema fu convincente e non ci furono commenti ma l’anno dopo Ninotto mi chiese in prestito il torchio. Dopo qualche anno, era il 1980, Giustino acquistò un torchio ma rinunciò ad usarlo e continuò, come Luigi ‘uNero, l’antico metodo della pietra torcia. Rimase in un angolo della sua cucina.

5 – con la buona stagione

Le cose cominciavano a cambiare con la fine dell’inverno. Le presenze erano più frequenti sia dei contadini proprietari che di amici che facevano dei fine settimana nell’isola. La vita al Fieno interrompeva la sua quotidianità con le giornate in cui da Giustino si festeggiava un amico, una ricorrenza o il pranzo d‘a quagliara o d‘i rutunne). Il rituale, come la maggior parte dei presenti, era sempre lo stesso. Anche le posizioni a tavola venivano di solito rispettate, non come alla passatella domenicale nella cantina della Bufera int’i craunèlle, ma quasi. E non meno piacevoli e divertenti quelle nella mia cantina.
Si dimenticava l’inverno, l’età, il freddo, i problemi per aprire tutti l’animo al meglio. Ninotto era insostituibile. E spesso anche le signore si lasciavano prendere dal posto, libere dai freni consueti. Accolte nelle prediche di Gioì la cui specialità era la benedizione.

Un giorno mi rivelò di essere stato compagno di scuola di don Salvatore (ex parroco) che, secondo lui, fin da ragazzo dimostrò di non avere uguale facondia né, come dire, le stesse sue capacità dialogiche.
E non perdeva occasione di dimostrare l’abilità di predicatore e di supplice oratore. Antonio De Luca scrive: Gioì mescolava sacro e profano. Si confondevano le parole in un’unica liturgia. L’intento era quello di esaltare la convivialità, l’amicizia, la vigna, il vino, l’allegria…(p.63).

I suoi amici, nella circostanza miscredenti e pagani, fomentavano le sue esibizioni, utilizzando qualunque oggetto si prestasse ad un trucco da sacro cerimoniale, e in queste esibizioni è stato spesso filmato mentre rivolgeva parole di gratitudine alla vita, invocazioni di protezione a s. Silverio e benedizioni a tutti i presenti. E allora scompariva ogni intenzione di dileggio, non c’era più gesto di teatro: l’attore era investito dagli spettatori, pensava e diceva quello che loro, attori-spettatori, pensavano e volevano sentire: forse c’era in tutti voglia di partecipazione, anche fra gli eventuali ospiti. E il santo dall’edicola guardava e sorrideva. Totonno Scotti oltre che di palato sopraffino era anche un ottimo cuoco. Era tale la devozione ed il gusto per la buona tavola che era solito portarsi da casa un grande tovagliolo bianco. Spesso si lasciava a lui il compito di cucinare il piatto forte che era a base di perchie (pesce sciarano) o di sùrici ‘i mare (pesce pettine). Si organizzava una pescata a Palmarola di primo mattino. Al ritorno, abbascio ‘i cantine si pulivano i pesci che venivano poi cucinati nella cantina di Giustino. C’era poi la quagliara. A maggio, quando i cacciatori aspettavano il passo delle quaglie che venivano dall’Africa. Poste in bell’ordine su una rete di letto si cuocevano sopra una brace di pennecille, una fascina di tralci di vite.

Da quando ho avuto una cantina ci fu la consuetudine di festeggiare al Fieno il lunedì di Pasqua, la fine settimana della festa di s. Silverio e quanti più possibile fine settimana con, oltre i “fienili” la cui presenza era imprescindibile, d’obbligo e di diritto, alcuni amici di Ponza e di fuori. Era invitato anche Peppe Sigaretta al quale, come armatore, i ponzesi credo debbano essere grati perché a lui si devono i collegamenti con la terraferma quando la linea regionale riteneva di non poter viaggiare. Una volta vedemmo spuntare la nave Maddalena dalla punta del Faro. Di solito quando si riparava dal levante a Chiaia di Luna, passava larga. Invece strinse sottocosta e, arrivata sotto le cantine, cominciò a salutare a fischi di sirena. Giustino, Benito, Miriam, risposero dalle cantine a colpi di fucile (p.66).

Vado ancora orgoglioso dell’utilizzo del tubicino. Evitava al padrone della cantina la fatica di riempire ‘n‘u pizzepapere da un bottiglione di 9/13 litri e ad interrompere la conversazione e gli applausi e i brindisi che si facevano tra frizzi, lazzi, citazioni di versi sempre più licenziosi e che tentavano di interrompere le canzoni di Ninotto. Anzi, spesso si sovrapponevano perché nessuno voleva recedere e tutti volevano che le proprie orecchie ascoltassero quello che dicevano le proprie labbra, sempre più bagnate (p.51). E infine poi le giornate dedicate alla vendemmia. Mentre si allestiva il pranzo, gli ospiti si aggiravano tra le parracine, nelle trasparenze verdeoro delle ginestre, nel sole caldo della giovane stagione, con in mano un bicchiere di vino. Cominciavano a sentire la complicità dell’ambiente a cui non sapevano e non volevano sottrarsi. Cominciavano a sentire di essere in un posto con addosso il peso di cose qui del tutto estranee ed avvertire il bisogno di liberarsene. La libertà di sentirsi e di essere nudi da orpelli.

M.C.Jacobelli traduce un passo di s.Tommaso (I – Il ae, q. 31, a. 3): (dei piaceri)

Alcuni sono corporei, altri dell’anima; il che in sostanza è la stessa cosa (quod in idem redit) (…) e il bene sensibile è il bene di tutto il composto umano (totius coniuncti). Così che all’ora di pranzo già sembravano trionfanti in e per quel posto che sembrava fossero stati loro ad aver scoperto e ci venivano indicando con occhi incantati e stupefatti cose vicine o più lontane, come se noi non le avessimo mai viste. La natura fescennina che risiede in noi si veniva liberando e compariva. Col passare del tempo si veniva riducendo il numero dei commensali.
Diminuivano le voci, si abbassavano i toni e risate e si riduceva la partecipazione alle canzoni di Ninotto e di qualche altro che resisteva alla necessità di una breve pausa di silenzio, ad occhi chiusi. La pennichella chiamava i commensali.

Alcuni, aggirandosi nei dintorni della cantina, venivano scoprendo un posto, seminascosto da verdi cespugli, ombroso del sole ancora alto e dove le voci arrivavano sommesse, adatte per provare un sonnellino. Altri, più accorti, si erano silenziosamente eclissati negli spazi vicino alla grottella. Molti per trovare maggior comodo, si sdraiavano a terra usando qualche indumento come poggiatesta (p.68). Tutto questo concorse a pensare il Fieno come un giardino delle delizie e il paese, mitizzando luogo, vignaroli ed il loro vino.

leggi anche:
“Il Fieno, una storia segreta di Ponza”  il libro di Giuliano Massari

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