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OLOCAUSTO, PER NON DIMENTICARE

Il 27 gennaio si è celebrata la giornata della memoria sull’Olocausto. Ecco come il cinema, nella storia, ne ha parlato «Per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. Nulla più è nostro. Ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i cappelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e si ci ascoltassero non ci capirebbero.

Ci toglieranno anche il nome: e se vorremmo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga».

Primo Levi, nel romanzo autobiografico Se questo è un uomo , denunciava l’insufficienza della parola scritta nell’esprimere il dramma dell’Olocausto, l’incapacità di restituire al lettore la reale portata di un tragedia personale e storica di proporzioni così spaventose.

Un analogo esercizio di umiltà sembrano aver fatto per molto tempo i più grandi registi, muti, incapaci di raccontare per immagini i campi di sterminio della seconda guerra mondiale. Eppure documenti visivi dei lager esistevano, filmati accuratamente raccolti, catalogati ed esibiti dagli stessi nazisti.

il lungo silenzio del cinema

Il lungo silenzio del cinema trova però anche altre motivazioni, riconducibili al delicato processo di pacificazione tra gli Stati all’indomani della fine della guerra: Notte e Nebbia (1955) di Resnai, il primissimo film che documentava l’aberrante rigore architettonico dei lager, fu quasi subito ritirsato dalle sale per paura di minare i vacillanti rapporti diplomatici tra Francia e Germania riaprendo ferite ancora troppo dolorose.

una sorta di pudore

In altri casi resistette forse una sorta di pudore programmatico che spinse registi come Gillo Pontecorvo ( Kapò , 1960), Liliana Cavani ( Il portiere di notte ,1974) e Sidney Lumet ( L’uomo del banco dei pegni , 1965) soltanto a evocare la tragedia, focalizzando l’attenzione per lo più sull’inferno privato dei sopravvissuti, vittime e carnefici, con rapidissimi e congestionati flash back sul passato.

L’occhio dei bambini

Ci fu chi scelse invece l’occhio ingenuo e trasfigurante dei bambini per narrare un realtà troppo grande per essere compresa a pieno: è il caso del Diario di Anna Frank (1959) di George Stevens, vincitore di tre premi Oscar, o de i più recenti Europa Europa (1991) di Agnieszka Holland, Jona che visse nella balena (1993) di Roberto Faenza, il delicato Arrivederci ragazzi (1987) di Louis Malle, Leone d’oro a Venezia, fino al pluripremiato La vita è bella di Roberto Benigni.

Strade più dirette

Successivamente il cinema sceglie strade più dirette di rappresentazione, già evidenti nella scelta dei titoli ( Holocaust di Chomsky, 1978) o nell’esibizione dell’abiezione dei prigionieri dei lager ( Pasqualino Settebellezze della Wertmüller del 1975 con un convincente Giancarlo Giannini). Spesso finzione e rigore documentaristico si confondono, come nel caso dei film che indagano sulla sorte dei criminali nazisti ( Uno specialista – ritratto di un criminale moderno di Eyal Silvan) o dei sopravvissuti ( Shoah , 1985, di Claude Lanzmann).

Spielberg

Uno sforzo immane di rappresentazione dell’Olocausto lo compirà Steven Spielberg che in Schindler’s List (vincitore di 7 premi Oscar) mette da parte fronzoli hollywoodiani per dare vita a un film altamente didattico, straziante, bellissimo. Sempre lo stesso Spielberg ha prodotto il recente progetto documentario The Last Days (1998, premio Oscar) diretto da James Moll, con l’agghiacciante testimonianza di cinque ebrei ungheresi sopravvissuti alla Shoah. La tregua (1997) di Francesco Rosi, Train de vie (foto, 1998) di Radu Mihaileanu e Concorrenza sleale di Scola  sono le ultime tappe di un’indagine cinematografica che promette già nuovi capitoli. (cristiano biondo)

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