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Twilight Singers, intervista a Greg Dulli

Rilassato e franco, racconta di presente, passato e futuro

È con una certa emozione che vedo Greg Dulli comparire nella hall dell’albergo di fronte al Magnolia, poche ore prima del suo concerto a Milano. È comprensibile, quando si ha l’occasione di incontrarlo di persona dopo anni in cui la sua musica è stata parte della colonna sonora della tua vita. I Twilight Singers sono tornati dopo cinque anni con un nuovo disco, Dynamite Steps, e lo spettacolo milanese è l’ultima di un fortunato terzetto di date italiane, in cui compare come ospite anche il "nostro" Manuel Agnelli. Gli show a Bologna e Roma sono andati alla grande, come mi racconta il gentilissimo tour manager Keith (a cui va un grazie sentito). Si preannuncia una bella serata. Greg, rilassato e franco, ci racconta del presente, del passato e anche qualcosa del futuro – non soltanto il suo.

Quali sono le tue sensazioni riguardo al nuovo disco, soprattutto ora che stai suonando le canzoni dal vivo?

Penso sempre la stessa cosa delle canzoni rispetto agli album: nei dischi quello che registri è solo un calco, la canzone diventa vera soltanto quando la suoni dal vivo. In studio le suonerò una volta o due. Quando ero più giovane e facevo parte di una band provavamo tantissimo e suonavamo i pezzi decine di volte prima di inciderli. Ora non ho più né il tempo né il denaro per fare la stessa cosa: registro una canzone come meglio posso, cerco di darle il feeling giusto, ma è in concerto che diventa ciò che è davvero.

Come hai scelto il titolo Dynamite Steps?

Era uno di tre titoli che avevo annotato qualcosa come tredici anni fa. Li avevo scritti e li avevo chiusi in una scatola. Da allora ho fatto altri sei dischi prima di tornare a guardare cosa c’era dentro quella scatola. Mi è venuta in mente mentre stavo lavorando alla canzone che è diventata Dynamite Steps. Ne sono rimasti altri due.

Per i prossimi due dischi, magari…

Non lo so, come ti dicevo, ho aspettato dodici anni prima di usarne uno…

Hai un brano che preferisci nel nuovo album?

No, ci sono canzoni a cui mi sento molto legato. Mi piacciono moltissimo Last Night In Town, Never Seen No Devil, On The Corner, She Was Stolen, Get Lucky – anche lei mi piace molto – ma direi che mi piacciono tutte quante.

Cercavi un’atmosfera particolare, diversa dal passato?

Trovare la giusta atmosfera, il mood, per me è importante quando incido una canzone o un album. Ma non descrivo mai il senso dei miei dischi a qualcuno, quella è una cosa che spetta a chi ascolta, che può decidere liberamente qual è secondo lui il significato. Il modo migliore in cui riesco a descriverlo è questo: immagina una casa grande, enorme, con molte stanze, venticinque, trenta… in ognuna succede qualcosa di diverso; ascoltare il disco è come fare su e giù per le scale entrando in tutte le stanze e cercando di scoprire che cosa succede in ognuna di queste. In alcune può non esserci niente, ma in altre sta succedendo parecchio…

Quando scrivi parti dalla musica o dalle parole?

Sempre dalla musica.

È vero che On The Corner è nata da un "incidente"?

È vero. Ero nello studio del mio amico Dave Catching a Joshua Tree, c’era un vecchio organo, di quelli che avevano gli amici dei miei genitori quando ero bambino. Aveva una batteria elettronica incorporata che si era bloccata su quel ritmo, non riuscivo a spegnerla né a scollegarlo perché era troppo pesante, in più Dave era già andato via, potevo andarmene anch’io o suonarci qualcosa per non diventare matto – perché continuava a martellare [fa il verso alla batteria N.d.A.] -, così mi sono messo a cantarci sopra ed è venuta fuori una cosa molto divertente.

Nelle note dei dischi hai sempre usato l’espressione "shot on location" invece del classico "recorded". Il senso del luogo ha sempre un ruolo importante nelle tue registrazioni. Pensi che influenzi sia l’aspetto esecutivo che la scrittura?

Sì, penso di sì. Ho scritto canzoni ovunque, in tanti Paesi del mondo, anche in Italia. Ci può essere un’influenza, senz’altro, anche se alla fine quello che emerge è soprattutto la personalità di una canzone, che sia registrata a Joshua Tree o a Los Angeles.

La tua musica è molto visiva e narrativa, spesso i tuoi brani sembrano piccole storie o brani di film. Hai mai pensato di cimentarti come regista o scrittore?

Ho pensato a entrambe le cose, sì. Credo che se succedesse una delle due, scriverei comunque un romanzo prima di dirigere un film: sono più attratto dalle cose su cui riesco ad avere il pieno controllo, con i film è diverso, conosco alcuni bravi registi ed è un lavoro enorme il loro, di grande responsabilità; non che sia uno che tende a scansare le responsabilità ma in genere preferisco lavorare da solo, il che si addice di più a un romanziere.

Che differenza c’è tra la Sub Pop di adesso e quando ci hai lavorato ai tempi degli Afghan Whigs?

Hanno imparato a gestire il business. Nei primi tempi rimanevano al verde da un momento all’altro, ricordo che quando stavo registrando Congregation loro rimasero senza soldi e io, bloccato in California, dovetti trovarmi un lavoro. Poi per fortuna i Nirvana uscirono con Nevermind e ci tirarono fuori dai guai. Da allora la Sub Pop è diventata un modello: ha un roster molto più vario, se pensi che prima aveva un unico brand e ora pubblica musica africana…, i suoi maggiori successi sono gruppi vocali, i Fleet Foxes, Iron and Wine, gli Shins. Sono molto bravi, mettono grande passione in ciò che fanno e quando si lavora insieme senti tutto il loro appoggio. Sono davvero cool.

Meglio adesso di una volta, insomma.

Be’ era divertente anche allora, eravamo tutti giovani e non sapevamo bene che cosa stavamo facendo. Non ho rimpianti, era comunque il meglio che potessi avere, avevo solo ventiquattro anni.

E comunque Congregation è venuto fuori un gran disco…

Grazie, per fortuna che è uscito….

Com’è stata l’esperienza della tua tournée da solista?

Mi sono divertito tantissimo a suonare le mie canzoni in modo diverso dal solito. Quando non hai un batterista, suoni la chitarra in maniera molto più ritmica, percussiva, ma avevo anche gli archi, un altro chitarrista e una seconda voce, per cui non ero completamente da solo. È stato fantastico suonare canzoni vecchie di ventidue anni insieme ad altre che avevo completato da appena un mese, e accorgermi che mi rappresentavano perfettamente e che avevo ancora voglia di suonarle dopo vent’anni. Una sensazione davvero bella.

Stasera suonerai insieme al tuo amico Manuel Agnelli degli Afterhours. Manuel ha di recente collaborato con Steve Wynn che è uno dei tuoi musicisti preferiti, vi vedremo mai collaborare tutti assieme?

Non ho mai conosciuto Steve di persona, ci siamo scritti via e-mail ma mi piacerebbe tantissimo incontrarlo. È stato una delle mie prime fonti d’ispirazione, amavo e amo tuttora i Dream Syndicate.

Ci dobbiamo aspettare qualcosa di nuovo dai Gutter Twins?

Un giorno, ma adesso Mark sta per uscire con nuovo disco suo, ed è tanto che non ne faceva uno. Da quello che ho potuto sentire sarà un capolavoro [letteralmente: one of the best things anyone’s ever heard N.d.A.]. Mark per me è come un fratello, è uno degli migliori amici che ho al mondo e adoro lavorare con lui. Ho già scritto un paio canzoni che potremmo registrare insieme, ce ne vorrebbero altre dieci, ma penso che faremo un altro album prima o poi.

Tanti gruppi indipendenti storici si stanno riformando di questi tempi. Qualcuno ti ha mai chiesto di fare la stessa cosa con gli Afghan Whigs?

Ogni anno me lo chiedono. Io non ci ho mai pensato. Potrei prendere in considerazione l’idea se ci fossero ragioni migliori che non i soldi. Dovrei parlare con ciascuno di loro. Intendiamoci, la domanda non mi disturba, io amo gli Afghan Whigs, sono una parte importante della mia vita, però se tante persone sono interessate ancora oggi, non mi riguarda neppure più di tanto ma è una cosa loro, lo prendo comunque come un complimento. In ogni caso, quando qualcuno mi darà una buona ragione potrò forse considerare la cosa.

Che rapporto hai con il nostro Paese, Greg?

Io amo l’Italia, è tra i miei cinque Paesi preferiti al mondo.

Hai origini italiane?

No, greche. Ma ho molti splendidi amici italiani, passo molto tempo qui, una volta parlavo anche italiano. Sono sempre felice qui, mi diverto tanto, sorrido e sono contento, il clima, le donne, il cibo, i vestiti, le macchine, è tutto fantastico… Mi piace anche la musica italiana [riascoltando l’intervista mi accorgo che in quel momento dagli altoparlanti della hall usciva la musica di Jovanotti, ma non credo che Greg si riferisse a quello… N.d.A.]

Permettimi una curiosità: hai ancora un bar a Los Angeles?

Ne ho due, uno a LA e uno a New Orleans.

Ne aprirai mai uno in Italia?

Chi può saperlo, magari, se si presentasse l’opportunità, non mi dispiacerebbe…

Lo saluto ringraziandolo di cuore e ci auguriamo una vicenda una buona serata. Non si poteva chiedere di meglio: tanto è cordiale di persona quanto sul palco è carico e pieno di passione. Si vede che è un momento positivo e appare in splendida forma. La voce e il sound sprigionano tutto il suo carisma. Il concerto, tra i migliori visti di recente, passa in rassegna buona parte del nuovo LP e del migliore repertorio dei Twilight Singers. Ci scappano anche un paio di pezzi degli Afterhours, complice la presenza di Manuel e di Dario Ciffo. Una devastante Waves chiude una serata perfetta.

di Tommaso Iannini

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