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Un teatro da mangiare

In un agriturismo sull’Appennino bolognese, ci si siede a tavola, si mangia e si assiste a uno spettacolo teatrale. Ecco le strane esperienze di un gruppo di contadini-attori «Gli spettatori entrano e si accomodano al grande tavolo, noi tre, Maurizio, Paola e Stefano, stiamo cucinando, finendo di tirare le tagliatelle, ultimi preparativi. Parte l’Internazionale, serviamo in tavola e Paola dice, catturata in una rete, come a un comizio “Nell’autunno dell’89 quando crollava il muro…”. Lì comincia il pranzo, lì comincia lo spettacolo». Tra sfoglia appena fatta, pane cotto sul testo, salumi e formaggi, scalogno sott’olio, legumi, verdure biologiche del podere, una salsa, bottiglie di Pignoletto, va in scena Teatro da mangiare? , evento teatrale per un gruppo ristretto di commensali, poco più di venti. Ne ha parlato anche Le Monde di questo teatro «fatto di terra», a trenta chilometri da Bologna, verso l’Appennino, in un piccolo podere di Castello di Serravalle (prenotazione obbligatoria, tel. 051/6704373, conto di lire 30 mila e si paga prima di entrare in cucina, valgono le regole del teatro). Nella loro piccola azienda agrituristica, o meglio nel Teatro delle Ariette, dal nome dell’appezzamento di terra, Paola Berselli, Maurizio Ferraresi e Stefano Pasquini preparano e consumano un vero pasto, raccontando la loro singolare esperienza di contadini-attori: dieci anni di vita in campagna e di teatro fatto fuori dai teatri.
«Non immaginate il racconto di una storia lineare con un ordine cronologico, piuttosto pensate – spiega Stefano – a un grande pranzo di famiglia, a un pranzo di Natale o a un compleanno. Ci sono stacchi bruschi, fantasmi del nostro teatro che tornano in questa cucina e momenti di intimità scorticata: una lettera alla mamma o il racconto del mulino dove maciniamo il nostro grano e poi serviamo un altro piatto e lo prepariamo e poi un’altra bottiglia di vino e si ride o si piange o si ascolta soltanto, si beve e si mastica aspettando le tagliatelle, che l’acqua bolla e la sfoglia si asciughi e intanto al tavolo pezzi di vita o di morte, buone e cattive notizie».
Che tipo di pubblico viene a gustare il vostro menù. teatrale? Interviene, dialoga, si unisce alla rappresentazione?
Il nostro non è pubblico, sono spettatori, io li vedo così e gli spettatori si assomigliano, ma sono tutti diversi, giovani, vecchi, uomini, donne, operai, impiegati, attori… Di solito è bella gente: «affamata». Gli spettatori mangiano, bevono, guardano, ascoltano, ridono, a volte piangono, si emozionano. È molto forte come il teatro e il cibo s’influenzino, una semplice mela, una noce diventano buonissime, il teatro diventa saporito. C’è un forte scambio di emozioni, un’interazione invisibile, impalpabile, ma presente quando si apre quella porta che conduce dentro. In certi momenti siamo tutti una cosa sola. Poi alla fine le tagliatelle.

Quali canzoni, quali monologhi, quale affabulazione? Rigorosamente autobiografici o anche frammenti della storia passata e presente della Valle del Marzatore? E perché Marzatore?
Marzatore è il nome del rio che attraversa la valle. Deriva da Marcitore, cioè quello che fa marcire. È una valle stretta, umida e fredda, selvatica. Nel Marzatore ci siamo noi con le nostre storie e nelle nostre storie c’è Tom Waits e l’Internazionale, Camus, Frenaud, echi di Marguerite. Duras (quanta Francia!).
Teatro da mangiare?, un evento nato l’anno scorso per VolterraTeatro. Come è nata l’idea?
Teatro da mangiare? non è stata un’idea ma una conseguenza. Dal 1989 siamo contadini e riusciamo a guadagnarci da vivere lavorando la terra e facendo da mangiare la domenica per i clienti della nostra piccolissima azienda agrituristica. Dal 1995 abbiamo ripreso col teatro e tentavamo di conciliare queste due attività. L’8 aprile 2000 abbiamo inaugurato il Deposito Attrezzi, un edificio rurale per il teatro che abbiamo costruito con le nostre mani, il nostro lavoro e i nostri risparmi sulla collina in mezzo ai nostri campi. Per l’occasione abbiamo ospitato lo spettacolo Teatro no con la regia di Armando Punzo. Stavamo da tempo lavorando sull’autobiografia e mentre stavamo parlando e facendo le tagliatelle in cucina Punzo ci ha chiesto di andare a Volterra a raccontare la nostra storia, tutt’intera, tagliatelle comprese. E così abbiamo messo insieme due pezzi della nostra vita che erano separati e sembravano inconciliabili, una separazione che provocava dolore.

La vostra ricerca si colloca da subito all’interno del «teatro civile e popolare». Quali i modelli di riferimento?
Amo molto Cesar Brie, mi piace il Teatro delle Albe, Danio Manfredini, Armando Punzo, il Teatro della Valdoca. «Civile» perché continuo a sentire e a pensare gli uomini come cittadini del mondo e «popolare» perché credo che gli spettatori (gli spettatori, non il pubblico, il pubblico è massa indistinta, gli spettatori sono insieme di individui) siano un elemento centrale dell’evento teatrale, che vive dello scambio e dell’incontro tra attori e spettatori. Il nostro è un teatro di terra, viviamo in campagna, siamo contadini, sta nella pancia e cerca emozioni, lavoriamo continuamente per forzare e aprire quella porta che conduce dentro: nel teatro invisibile del cuore. Il nostro teatro non si vede, si sente.

Date e orari di Teatro da mangiare?
Replichiamo fino al 18 marzo, è già tutto esaurito e sì che abbiamo raddoppiato le nove repliche previste arrivando alle attuali diciotto. Le repliche sono a cena (20.30) venerdì e sabato e pranzo (13.00) e cena (20.30) la domenica. Stiamo dicendo no a molti spettatori e ci dispiace, riprenderemo sicuramente il lavoro più avanti, ma dal 24 marzo al 6 maggio siamo impegnati col progetto “A teatro nelle case”.

Dall’84 all’89 che genere di attività teatrale avete svolto a Bologna?
Avevamo a che fare col teatro soltanto Paola e io, Maurizio lo abbiamo conosciuto dopo, nel 1990 alle Ariette. Lavoravamo nella cooperativa Baule dei Suoni, facevamo e ci occupavamo di teatro di ricerca con uno specifico interesse musicale. Il nostro ultimo spettacolo era stato un lavoro su Tom Waits. Dal punto di vista organizzativo proprio in quegli anni avevamo fatto nascere la Camerateatro del Centro Sociale La Morara, che è stata un punto di riferimento importante per il teatro di ricerca.

Poi per sei anni il silenzio, fino all’autunno 1995, come mai?
Difficile spiegare, ma so che ci sono momenti in cui il silenzio è necessario, è come respirare, si espira e poi si inspira. Un esercizio, una disciplina, un percorso di conoscenza anche questo è il silenzio e poi sicuramente un gesto politico.

A teatro nelle case è un altro vostro singolare evento teatrale, nato nel 1997?
Siamo arrivati alla quinta edizione, portiamo il teatro nelle case private dei cittadini del nostro comune e di altri quattro comuni vicini. Non ci siamo inventati nulla, il teatro nelle case si è sempre fatto. La particolarità della nostra esperienza è che noi lo organizziamo e cerchiamo di farlo uscire dalla clandestinità.

Che testi porterete quest’anno?
Inauguriamo quest’anno a casa nostra, alle Ariette con l’anteprima nazionale del nuovo lavoro di François Kahn Moloch-Testimone: Allen Ginsberg , uno spettacolo tratto dagli atti del famoso processo dei sette di Chicago. Proseguiremo con altri artisti e testi tra cui l’adattamento di Bartleby da Melville, Radio Clandestina di Ascanio Celestini, Amnesie di Stefano Vercelli.

E prossimamente in quale casa andrete?
La prossima casa è una casa vecchissima chiamata «la casa dell’ebreo» a Oliveto di Monteveglio, dove abita un amico musicista che suona klezmer.

C’è un episodio particolare di A teatro nelle case che ricordate con piacere?
Del teatro nelle case ricordiamo sempre con piacere la gentilezza e l’ospitalità delle famiglie. Ricordo in particolare la sera che eravamo ospiti di Gabriele Veggetti, single, casa in cima a Montemauro, strada ripidissima, niente parcheggio. Abbiamo lasciato le macchine a Tiola e siamo andati da lui sul crinale, a piedi, un chilometro in cima al mondo. Bellissimo. Ancora oggi chi c’era lo ricorda e forse chissà ha già dimenticato lo spettacolo.

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