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Un’Orestea senza via di scampo

Presentato al Festival di Sarajevo, l’allestimento del Deutsches Theater Berlin diretto dall’astro consacrato Michael Thalheimer lascia il pubblico senza fiato, tanto è tagliente e cupo, violento e disgustoso
È un fiume di sangue, quello che scorre nell’Orestea diretta da Michael Thalheimer per il Deutsches Theater Berlin. Entra subito in scena la splendida Constanze Becker, e fa della sua Clitemnestra una donna che non ha più nulla da perdere. Si cosparge di sangue, resta lì, solo in reggiseno e mutandine, a fumare nervosamente una sigaretta e a bere birra, scossa da brividi profondi. Mentre il sangue le impiastriccia il viso e i capelli…

Questa Orestea è un’opera magistrale: tagliente e cupa, violenta e disgustosa, impone la cruda verità della morte e della violenza, in un mondo ormai privo di speranza. Il giovane regista Thalheimer, astro consacrato del teatro tedesco, in collaborazione con il drammaturgo Oliver Reese, fa una scelta radicale. Rispetta quasi integralmente il primo “capitolo” della trilogia eschilea, l’Agamennone, poi asciuga al massimo il secondo, le Coefore, e taglia completamente il terzo, le Eumenidi.

Non c’è salvezza, allora, non ci sono divinità in cielo pronte a soccorrere gli umani, come Apollo, o a decretar legge, come Atena. In fondo, non c’è più giustizia.

Restano solo quei corpi morti ammazzati, deturpati, evidenti: come il cadavere di Agamennone, che rimane in proscenio, per tutta la durata dello spettacolo, strisciando lentamente, rantolando, completamente ricoperto di sangue, in una morte infinita, da una parte all’altra del palcoscenico.

Un palcoscenico, poi, completamente chiuso, murato: gli spettatori si trovano di fronte a una enorme parete lignea. E il pubblico è preso tra due fuochi: davanti ai loro occhi questa insormontabile, sporca parete, che chiude tutto lo spazio scenico, dando un senso di oppressione, di claustrofobica prigionia; alle spalle, appostato invisibile al primo ordine di palchi, il coro. Un coro possente, composto da 40 elementi che all’unisono scandiscono – quasi militarmente – le battute, aggredendo i protagonisti della tragedia sopra le teste degli spettatori.

In questo mondo senza vie d’uscita, senza speranza, gli uomini sono piccole marionette disgustose. Si muovono su due camminamenti, stretti e resi viscidi dalla poltiglia di sangue, sudore, birra: ma sono con le spalle al muro, non possono fuggire. Clitemnestra è laida, lussuriosa quanto basta per provocare subito sessualmente l’ottuso Agamennone (Henning Vogt) che torna da Troia: violenta e disperata, grida il suo dolore per la morte di Ifigenia, ma è ben chiaro che non è quello il movente del turpe assassinio.

Egisto, ottimamente incarnato da Michael Bentin, ha l’aria flaccida di un magnaccia, di un alcolizzato: con la sua camicia bianca, la cravatta sgargiante, la cinta bianca, cerca confusamente di spiegare le sue ragioni: ma la nevrosi lo attanaglia, nei gesti, nella paura..

E Oreste, lui potrebbe essere uscito da una clinica psichiatrica: pallido, sudato, se la fa letteralmente addosso per la paura, fragile omino chiamato a uccidere. Un ragazzino (magistrale il ventisettenne Henning Vogt) allucinato e disperato. Resterà solo, seduto in terra, in mezzo ai cadaveri, ad invocare l’aiuto di Dio, senza avere risposta.

Nella musicale traduzione di Peter Stein, l’Orestea ha inaugurato con grande successo la 47esima edizione del Mess Festival di Sarajevo. In una città incredibile per fascino e storia, dove ancora è evidente l’assurdità della guerra, Orestea commuove gli spettatori fino alle lacrime. E il grido finale del coro, scandito ossessivamente e ripetutamente per una ventina di volte, “Frieden für immer!” ossia “pace per sempre” lascia impietriti…

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