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Harold Pinter (1930 – 2008)

Il grande drammaturgo, certamente uno dei maggiori del ‘900, si è spento il 24 dicembre dopo una lunga malattia. Una personalità forte, che aveva fatto del teatro la sua ragione di vita

Se ne è andato con Harold Pinter uno degli ultimi grandi del Novecento, senza dubbio il più grande – lo riconoscevano anche i suoi detrattori – dei drammaturghi della sua epoca. Ha dovuto arrendersi alla malattia, un cancro che si era ripresentato con violenza. Quel cancro che insieme ad altri gravi problemi fisici gli aveva impedito di presentarsi a ritirare il Nobel nel 2005: aveva mandato un messaggio video registrato che la BBC, a testimonianza che nessuno è profeta in patria, non trasmetterà mai.

Ci eravamo del resto "preparati" alla sua morte vedendolo in scena al Carignano di Torino a ritirare il Premio Europa nel 2006, ma ci si era illusi, alla fine di quello stesso anno quando si era presentato in scena per recitare in L’ultimo nastro di Krapp: un suo omaggio a Beckett che era anche un addio al teatro di questo pacifista arrabbiato che, scandalizzando il suo Paese se ne andava in giro per il mondo a fare discorsi contro i "guerrafondai" Bush e Blair.

Del resto questo straordinario autore, di origine ebrea, nato da padre sarto nel 1930 a Hackney, uno fra i quartiere più poveri del povero East End londinese, dell’establishment se ne era sempre allegramente infischiato. E tutta la sua vita, come del resto le sue commedie, perfino quelle all’apparenza più "borghesi", erano sempre e comunque "contro": la tradizione, le regole consolidate della scena, il birignao, i riti comportamentali, i rapporti costituiti, i sentimenti artefatti.

Il suo teatro che per lui aveva anche assunto l’aspetto di riscatto sociale, dalla povertà e dall’emarginazione, partiva da una stanza (il testo che lo ha rivelato come drammaturgo nel 1957, scritto in tre giorni, si intitolava La stanza), un luogo all’apparenza protetto e invece carico di minaccia. Un luogo chiuso che poteva scoppiare e aprirsi a tutti i drammi del mondo, a partire da quella cellula della società che gli è sempre sembrata la più malata – la famiglia – e di lì risalire al senso stesso dell’esistenza. Per questo anche se, almeno nei primi tempi, aborriva la definizione di "teatro politico" pochi testi come i suoi lo sono stati: perché vivere prendendo posizione o lasciandosi definitivamente andare è l’atto più politico che esista.

I due estremi della sua vita – il palcoscenico e l’impegno -, del resto, c’erano già nelle sue prime scelte da diciottenne: l’iscrizione alla celebre RADA (Royal Academy of Dramatic Art) grazie a una borsa di studio (anche se poi non la porterà a termine) e il rifiuto del servizio militare come obiettore di coscienza in un’Inghilterra che guardava con estremo sospetto queste scelte. L’ultimo Pinter che dichiarava di non voler più scrivere per il teatro perché gli sembrava di avere detto tutto e di scegliere la poesia oppure la realtà della politica, che gli permetteva lo smascheramento delle bugie dei potenti, veniva direttamente da quelle scelte giovanili.

Sarà anche retorico affermare che il teatro era l’amore della sua vita ma è stato proprio così: una vocazione totalizzante, vissuta all’inizio come attore a imparare l’abc della scena con il nome di David Baron, in giro per la provincia inglese a recitare nella compagnia dell’irlandese Anew McMast quella drammaturgia d’Oltremanica che si esalta nell’arte della conversazione e che gli permetterà di conoscere dal di dentro la macchina teatrale nella sua struttura linguistica e rappresentativa. Per qualche anno è questo il suo mondo dove gli è compagna un’attrice sensibile e nevrotica, Vivien Merchant, che poi diventerà la sua prima moglie mentre la seconda, lady Antonia Frazer, fine scrittrice e storica, sposata nel 1980, gli sarà accanto in molte battaglie sociali e politiche.

Con La stanza comincia a prendere corpo il teatro di Pinter così come lo conosciamo: una battaglia di parole dove l’apparenza del banalmente quotidiano si rivela con tutta la sua capacità di eversione, evidenziando un mondo ben diverso da quello che le sue commedie sembrano raccontare. L’andata in scena dopo La stanza di testi formidabili che la critica e il pubblico non accettano subito – fra gli altri Birthday Party, Il calapranzi, Il guardiano, Una serata fuori -, lo rivelano come uno dei più grandi drammaturghi inglesi e non solo, con un suo tratto di forte originalità che lo distingue dal teatro degli "arrabbiati" Osborne e Wesker e perfino da quel cosiddetto teatro dell’assurdo che aveva in Beckett il suo capostipite.

Affermazione non facile la sua, si diceva, anche se poteva contare in patria sull’ammirazione di grandissimi attori. Per quel che riguarda il nostro Paese sono da ricordare – al di là della lite che lo contrappose a Visconti per le scelte registiche di Old times che non condivideva – le prove di Carlo Cecchi, Umberto Orsini, Adriana Asti e soprattutto la devozione di tanto nuovo teatro che con lui si è a lungo confrontato alla ricerca di un nuovo linguaggio rappresentativo. Peraltro i suoi testi (ricordiamo almeno Il ritorno a casa, Terra di nessuno, Una specie di Alaska, Chiaro di luna), ci parlano da soli grazie all’inquietante e spiazzante scrittura ricca di pause che non sono cariche di metafisicità come si è favoleggiato, ma del tutto naturali per permettere all’attore di prendere le misure al proprio personaggio e ci dicono molte cose di un ex ragazzino innamorato del cinema (che poi farà come sceneggiatore da Il servo a La donna del tenente francese), folgorato a tredici anni dalla scoperta dei surrealisti francesi, dei film di serie B americani, dei cineasti russi.

Ma ci raccontano anche di un ex attore che sapeva come scrivere per la scena fosse "un compito molto difficile e molto liberatorio". Lo diceva con un po’ di civetteria con quell’autoironia, quella chiarezza fulminante, quella semplicità, quel piacere della vita che erano, oltre alla sua genialità, i tratti fondamentali della sua umanità.

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