Moda

In viaggio con Antonio Marras

Antonio Marras contamina, mischia, fondere caratteristiche eterogenee per costruire il proprio personale collage di vecchio e nuovo, di Oriente ed Occidente, di vecchio mondo e di terzo mondo, di bello e di brutto, di personale e di collettivo. La libertà al potere

 

 

Antonio Marras negli anni si è sempre distinto per la ricerca artistica e stilistica che c’è dietro la creazione dei suoi abiti. Questa volta ci ha portato in Mali, ispirandosi alle foto del celebre Malick Sibidè, il celebre occhio di “Bamako”, che registrò il momento storico più importante, quello cioè che nel 1960 il Mali, insieme ad altri 17 stati africani, vide il Paese conquistare finalmente l’indipendenza, e  la sua capitale, Bamako, scatenarsi in festeggiamenti che coinvolsero tutta la popolazione, il fotografo registrò questo straordinario momento storico scattando centinaia di foto in bianco nero, di Giovani che ballano il twist e il rock‘n’roll nei nuovi clubs, luoghi di ritrovo di questa nascente generazione in movimento. Foto di ragazzi e ragazze vestiti all’occidentale e donne elegantissime in abiti tradizionali. Ritratti di austeri capifamiglia con tre mogli e 15 figli e foto di coppiette romantiche che si sfiorano. Scatti di uomini con gli occhiali scuri che ascoltano la musica dal mangianastri e squadre di calcio in divisa. Ed ancora foto di gruppo di invitati a matrimoni e battesimi e partecipanti in festa a pic nic sul fiume.  È un mondo fatto di ritmo e di danza, di vestiti e di capigliature, di incontri, comitive e famiglie allargate. Tutto cadenzato dal ritmo. Del resto c’è una danza per tutto: per invocare la pioggia, per festeggiare i matrimoni, per ricordare il defunto che si accompagna nell’ultimo viaggio. E per la danza abiti dalla vita segnata, corpetti arricciati striminziti e aderenti, gonne ampie e voluminose, spicchi, drappeggi e arricci, pieghe, plissè, nodi, twist e fiocchi e poi rouches e jabots. Oppure linee fluide, scivolate, morbide e ondulate.Parei, tuniche, camicioni e caftani. Panta multipences e giacche tailoring avvitate, fianco bombato e spalle evidenti. I tessuti, innumerevoli e variegati, vanno dal cotone sangallo bianco alle stampe su duchesse e georgette. Bouquet di ortensie incastrate con coquillages marini, papaveri alti alti insieme a figure che ricordano le silhouette di Kara Walker, foto di frammenti di velette dismesse e disordinate, roselline da tapezzeria fin de secle, disegni animal print e stampa batik. Macrocheck bianco e nero perché il quadrato è segno di dualismo: giorno e notte, luce e buio, istinto e ragione. Ed ancora jacquard di nero argento, lino laccato, lino mal tinto e lino prince de galles. E poi compaiono il vichy di cotone, la stuoia chanel multicolor, il pizzo, il jeans devorè, il fil coupè sfrangiato. Inserti, intarsi e incrostazioni. Ricami filo, baguette e placcature. Applicazioni con fiori di raffia e paillettes, passamaneria a frange.
Trasparenze, sovrapposizioni, stratificazioni, intrecci. Il bianco e nero su tutto ma anche il rosa polvere e il verde malva. Il kaki e il denim. L’oro, il bronzo e l’argento. I metallici e i naturali. Uomini e donne indossano gli stessi tessuti. È  questo l’ibridismo vestimentario: la mescolanza di elementi difformi e la coesistenza di elementi disarmonici in apparenza in cui si incontrano dettagli di culture diverse proiettati verso la rottura di ciò che è stato. Mutano i generi canonici, ma sempre nel rispetto della memoria collettiva, che anzi si rafforza grazie all’ispirata libertà di reinterpretarla. Gli elementi si sovrappongono dando a tutto ciò che era già esistente, una forma nuova, unica e irripetibile.

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