La morte di Elvis Presley
Libri

La morte di Elvis Presley, nel libro di Guralnick

La Morte di Elvis Presley . Peter Guralnick racconta la morte di Elvis re del rock’n’roll in L’ultimo treno per Memphis – Amore senza freni, la monumentale biografia di Elvis Presley

La morte di Elvis Presley . I giorni passavano tutti uguali, uno dopo l’altro. Era un’estate calda a Memphis, ma non faceva molta differenza per Elvis Presley , che si avventurava assai di rado fuori dalla sua camera rinfrescata dall’aria condizionata. Quell’anno non ci sarebbero stati i soliti fuochi d’artificio per il 4 luglio, e infatti i ragazzi gli avevano riferito che Ginger era andata a ballare per festeggiare l’evento, mentre aveva detto che sarebbe andata a casa dai suoi.1 Elvis non poteva fare a meno di sentirsi frustrato e irritato per l’incapacità della ragazza di impegnarsi veramente nel suo rapporto con lui.

Ma non capiva che aveva bisogno di lei? Diceva con tono lamentoso al dottor Nick o a suo cugino Billy ogniqualvolta si sentiva giù di corda. Ma poi diventava più tollerante e giustificava quelle sue esigenze come i desideri naturali di una ragazza giovane, e non smetteva di sommergerla di regali: gioielli, vestiti, una macchina sportiva Triumph, si offrì persino di acquistare una casa per la sua famiglia a Whitehaven, in modo che lei potesse stargli più vicina e, visto che non riuscirono a trovare un’abitazione adatta, si impegnò a estinguere l’ipoteca sulla casa dove vivevano al momento e a finanziare la costruzione di una piscina.

La morte di Elvis Presley

La signora Alden e le figlie gli erano indubbiamente molto riconoscenti, lo consideravano una specie di miracoloso benefattore che le riempiva di ogni ben di Dio, ma la sua generosità non servì a smuovere più di tanto Ginger, che continuava imperterrita a rifiutare di trasferirsi definitivamente a Graceland. Sembrava, disse a Charlie, che il suo fosse proprio, come diceva una vecchia canzone, «un amore a senso unico»

Non vedeva quasi più nessuno

Non vedeva quasi più nessuno, a parte Charlie, Billy e Jo Smith, e il dottor Nick. Avrebbe voluto ingelosire Ginger con altre ragazze, ma in realtà non aveva né la forza né l’interesse per farlo. Ogni tanto capitava che George Klein o altri vecchi amici venissero a trovarlo, ma lui, vedendoli sui monitor dei dispositivi di sicurezza, li faceva subito avvertire che in quel momento era impegnato e che avrebbero potuto tornare un’altra volta. Non aveva legato con nessuno dei ragazzi nuovi. Sam Thompson e Dick Grob si occupavano della sicurezza con grande professionalità, Al Strada, che era lì da poco, lo assisteva con solerzia, ma in realtà non poteva parlare con nessuno di loro, e si fidava sempre meno dei fratellastri Ricky e David Stanley, che erano i maggiori responsabili dei suoi problemi quotidiani.

La morte di Elvis Presley

Aveva fatto del suo meglio per educarli, perché si avvantaggiassero della sua esperienza, ma Ricky era quasi perennemente fatto, e sospettava che David avesse più cose da spartire con Ginger che non lui – erano sempre insieme a spettegolare, e David si appartava spesso con la ragazza e la chiamava in disparte. A quel punto non sapeva più di chi fidarsi, quindi se ne stava chiuso in camera con i suoi libri e le medicine di cui aveva bisogno per allontanare dalla mente tutte le sofferenze che non lo lasciavano mai in pace.

«Tutto quello che facevamo», ricorda Billy, «era passare il tempo a chiacchierare seduti nella sua stanza.» Talvolta ricordavano le cose folli che avevano combinato in passato, altre rivedevano alcune sequenze dei Monty Python, ma il tutto avveniva in un’atmosfera di cupa ossessione che Billy non aveva mai sperimentato prima di allora, una paranoia nei confronti delle persone, germi di problemi ormai sepolti, di possibili avvenimenti futuri, che in più di un’occasione a Billy richiamò alla mente Howard Hughes.

Il libro di Sonny e Red era l’argomento sul quale Elvis Presley era particolarmente accanito.

A volte parlava a Billy della sua idea di farli uccidere La morte di Elvis Presley

A volte parlava a Billy della sua idea di farli uccidere. «Una volta gli dissi: “Ascolta, non ne vale la pena. E, comunque, sai benissimo che non cambierebbe niente. Non cambierebbe nemmeno i tuoi sentimenti nei loro confronti. Lo sai che in fondo sei legato a loro, ed è proprio questo che ti fa stare male”.

Allora lui scoppiò a piangere. Non è che versò qualche lacrima, si mise veramente a singhiozzare. E anch’io piangevo insieme a lui, perché non potevo sopportare di vederlo soffrire così tanto… Ma poi diceva: “Vadano affanculo! Se mi rovinano la carriera, giuro che li faccio ammazzare”.»

Il peggio era quando si avvicinava la notte. Aveva il terrore di dormire, e allo stesso tempo temeva di non riuscire ad addormentarsi. Continuava a rifare lo stesso sogno, una variazione, in un modo o nell’altro, dell’incubo che lo ossessionava da quando il successo aveva improvvisamente bussato alla sua porta. Il succo del sogno era sempre lo stesso: non aveva più un centesimo, i fan l’avevano abbandonato, il Colonnello era scomparso, era rimasto solo. Cosa avrebbero pensato i suoi ammiratori dopo aver letto il libro? chiedeva ossessivamente a Billy.

Cominciò a costruire elaborate linee di difesa

Cominciò a costruire elaborate linee di difesa in caso qualcuno gli lanciasse degli insulti mentre era sul palco. «Inizialmente decise di spiegare che erano state scritte un sacco di storie su di lui, nel bene e nel male, e che certo sapeva di non essere perfetto.» Poi pensò che forse avrebbe dovuto ammettere che era vero, in effetti lui prendeva determinati medicinali, ma perché ne aveva bisogno, e, per dimostrarlo, avrebbe fatto salire il dottor Nick sul palco.

Alla fine, ripiegò sulla scelta di offrire una confessione parziale, che si sarebbe conclusa con la dichiarazione che «alla fine di questo tour mi rimetterò in sesto».

Ma solo, mise in chiaro con Billy, se le cose avessero preso una brutta piega, se il pubblico avesse cominciato «a subissarlo di urla e fischi e a lanciargli oggetti».

La morte di Elvis Presley

Lisa arrivò il 31 luglio per fermarsi un paio di settimane. Sarebbe rimasta fino alla sua partenza per il nuovo tour del 16 agosto. Elvis Presley diceva a tutti che non vedeva l’ora che il tour iniziasse, confidò al dottor Nick che quello sarebbe stato il migliore, però, allo stesso tempo, non faceva niente per prepararsi: provava di rado, non raccoglieva il materiale nuovo che continuava a dire di voler introdurre nel nuovo repertorio, e rimandava di giorno in giorno la dieta che aveva giurato di fare, non fosse altro per tacitare quegli stronzi di giornalisti che non riuscivano a parlare di nient’altro che del suo peso. 9 Alternava punte di depressione a momenti di sfida: come doveva essere in fin dei conti un uomo di quarantadue anni? Gli sarebbe piaciuto vedere come sarebbero diventati alcuni di quelli che lo criticavano alla sua età. Tuttavia non smetteva mai di guardarsi allo specchio.

La morte di Elvis Presley Ginger portava lì quasi ogni giorno la figlia maggiore di suo fratello Mike, Amber

Ginger portava lì quasi ogni giorno la figlia maggiore di suo fratello Mike, Amber, che aveva un anno in più di Lisa, perché le facesse compagnia.10 A volte le accompagnava a fare un po’ di shopping, e le due bambine sembravano divertirsi insieme. Certe mattine Lisa si svegliava presto e andava avanti e indietro per il viale alla guida del suo piccolo veicolo da golf, che aveva il suo nome scritto su una fiancata.

Sovente le ragazzine giocavano con alcuni bambini che abitavano nelle roulotte, oppure Ginger le portava a fare una nuotata. Elvis Presley comprò un pony per Lisa da suo cugino Harold Loyd e desiderando che la nonna lo vedesse, un giorno, nell’entusiasmo del momento, lo portò davanti all’ingresso principale, dove provvide subito a fare i suoi bisognini sul tappeto.

Su pressione di Ginger organizzò qualcosa di speciale per le bambine, e il 7 agosto affittò il Libertyland dopo le ore di chiusura (si trattava dell’ex luna park, che era diventato un parco divertimenti per il bicentenario), come aveva fatto un’infinità di volte ai vecchi tempi.

All’ultimo momento sentì che aveva i piedi freddi, e disse a Ginger che non se ne sarebbe fatto più niente e, quando lei insistette, le comunicò che ormai non avrebbe più potuto porre rimedio: aveva già comunicato al direttore del luna park il cambiamento di programma, e probabilmente i dipendenti se ne erano andati tutti a casa.

«Ma guarda un po’, Elvis Presley », gli disse drizzando la schiena al massimo per protestare contro una simile decisione arbitraria, «pensavo che mi avessi detto che tu potevi fare qualsiasi cosa!» Alla fine fu costretto a far telefonare da George Klein per riorganizzare tutto quanto. Tirarono le sei e mezza del mattino, e le ragazze si divertirono un sacco, insieme a una combriccola di altri venti amichetti. Anche Elvis, una volta tanto, parve essersi rilassato.

Andò sulla ruota e sulle montagne russe, poi sull’autoscontro, e riempì il bagagliaio della Stutz di un sacco di animali impagliati mentre cominciava ad albeggiare.

Le prime copie di Elvis, What Happened? erano già in vendita nei negozi

Le prime copie di Elvis, What Happened? erano già in vendita nei negozi, e lui sentiva montargli dentro alternativamente ondate di rabbia e di vergogna, ma cercava di pensarci il meno possibile mentre si preparava per il tour, che avrebbe preso il via a Portland, nel Maine, e si sarebbe concluso a Memphis dodici giorni più tardi.

Chiese al padre con grande anticipo di unirsi a loro, dopo due mesi di isolamento dovuto alle precarie condizioni di salute del vecchio, e Vernon, ancora pallido e stravolto per quello che aveva patito negli ultimi due anni, con il viso raggrinzito accentuato da sottili baffi canuti, gli rispose che quella volta avrebbe potuto seguirlo, la qual cosa gli infuse un po’ di coraggio.

Iniziò a seguire la dieta liquida ricca di proteine che gli era stata prescritta dal dottor Nick a pochi giorni dalla partenza, e si impegnò, pur con discontinuità, in alcuni esercizi fisici, giocando a volano con Billy, o allenandosi sulla cyclette per qualche minuto al giorno. Billy e Jo credettero di cogliere un lieve miglioramento del suo umore, e si sentirono a loro volta rincuorati.

Il 14 agosto, giorno del diciannovesimo anniversario della morte della madre, ordinò di portare dei fiori freschi sulla sua tomba, come d’altra parte aveva sempre fatto, almeno una volta alla settimana, da quando era venuta a mancare. Elvis non smise mai di pensare a lei, ma conservò il morale abbastanza alto da andare a fare un giro in moto e, quando non riuscì a entrare in una tuta nuova che aveva appena ordinato, ammise con il cugino: «Billy, faccio schifo per quanto sono grasso!

Dormì fino alle quattro del 15 agosto e mandò a chiamare Billy intorno alle sette.

Dormì fino alle quattro del 15 agosto e mandò a chiamare Billy intorno alle sette. Disse che non gli sarebbe dispiaciuto vedere il nuovo film sul generale MacArthur, con Gregory Peck – probabilmente non era allo stesso livello di Patton, generale d’acciaio ma, d’altra parte, non sapeva di molti altri film che lo fossero. Incaricò quindi Ricky di allestire lo schermo, e rimase parecchio deluso quando seppe che la sala non era riuscita a trovare una copia della pellicola.

Guardò per un po’ la televisione insieme a Billy, poi domandò al cugino di ricordare a Ginger l’appuntamento con il dentista, il dottor Hofman, alle 10,30. Ancora non sapeva con certezza se la ragazza sarebbe partita insieme a lui la sera successiva, ed era piuttosto teso anche per quel motivo, ma il suo nervosismo, secondo Billy, era tipico di quando era in procinto di affrontare un nuovo tour. Il che, tutto sommato, andava colto come un segnale positivo. Aveva persino manifestato l’idea di tornare prima o poi a Vail per mostrare a Ginger le bellezze naturali di quei luoghi.

Si fece aiutare da Billy a indossare il completo nero della DEA, poi si infilò un paio di stivali di vernice nera, che non riuscì comunque ad allacciare fino in fondo, tanto le sue caviglie erano gonfie. Il dottor Nick passò per una breve visita e, quando arrivò Ginger, Elvis si ficcò un paio di quarantacinque giri nei pantaloni della tuta e scese di sotto con lei, Charlie, e suo cugino. Joe Esposito, appena arrivato dalla California, era seduto in cucina ad aspettarlo con alcuni dei ragazzi, ma Billy gli disse che era di fretta e al momento non aveva bisogno di niente, e che l’avrebbe raggiunto più tardi. Il dottor Hofman gli fece la pulizia dei denti e gli otturò un paio di carie, poi, su richiesta di Elvis Presley , pulì anche i denti di Ginger e le controllò tutta la bocca.

Elvis Presley invitò il dentista ad andare a trovarlo

Elvis Presley invitò il dentista ad andare a trovarlo con la moglie nei giorni successivi per vedere la sua Ferrari, e il dottor Hofman gli domandò se non l’avrebbe accompagnato una volta o l’altra in California con Lisa Marie per andare a trovare la figlia. Entrambi avevano le figlie in California, gli rispose Elvis sorridendo, perché non fare loro una sorpresa all’ora di pranzo, appena dopo la fine del tour?

Elvis era di buonumore quando se ne andò, i denti otturati non gli davano fastidio, disse, ma avrebbe preso comunque qualche compressa di codeina per precauzione.

Arrivarono a casa alle 12,30, ed Elvis Presley andò di sopra senza vedere nessuno. Parlò al telefono con Joe per discutere gli ultimi dettagli del tour, e diede istruzione a Sam Thompson di accompagnare Lisa in California con un volo di prima classe nel tardo pomeriggio.

Allora Sam andò a casa a riposarsi un poco, e Joe ritornò nella sua camera all’Howard Johnson, dove era alloggiato anche Larry Geller, in attesa della partenza. Larry aveva informato Elvis Presley di aver portato dei libri nuovi per il tour, e non fu sorpreso di venir svegliato da una telefonata di Al Strada che gli chiedeva di fare avere i volumi a Elvis, in modo che potesse dare loro un’occhiata subito.

La morte di Elvis Presley

Larry fece in modo di mettere in vista, in cima al mucchio, A Scientific Research for the Face of Jesus, di Frank O. Adam, uno studio sul mistero della Sacra Sindone di Torino. Si trattava di un argomento che lui ed Elvis avevano discusso sovente, ed era certo che sarebbe stato di grande interesse per l’amico. Elvis Presley e Ginger intanto stavano litigando, come avveniva all’inizio di ogni tour, con identici risultati.

 

Elvis voleva che partisse con lui la sera stessa

Elvis voleva che partisse con lui la sera stessa, lei lo accusava di sapere benissimo che non poteva perché aveva dei contrattempi, ma che l’avrebbe raggiunto al più presto. Si comportava veramente da stupido, gli disse, si sarebbe stufato di vederla se lei gli fosse stata appiccicata in continuazione. A poco a poco si calmarono, e finirono persino per parlare ancora una volta di matrimonio. Lui pensava che Natale o il suo compleanno potessero essere delle date ideali, forse avrebbe dato l’annuncio a Memphis, durante l’ultimo spettacolo del tour.

Alle 2:15 circa Elvis chiamò il dottor Nick per informarlo che uno dei denti curati dal dottor Hofman gli faceva male e che aveva bisogno di Dilaudid; allora Nick scrisse una ricetta per sei compresse, ed Elvis mandò Ricky Stanley ad acquistarle alla farmacia notturna del Baptist Memorial. Chiamò Billy un paio d’ore più tardi per chiedergli se lui e Jo non avevano voglia di andare a giocare a volano. Nonostante stessero dormendo, rispose subito di sì, e la coppia si precipitò a casa di Elvis dopo essersi messa addosso qualcosa in fretta e furia.

La morte di Elvis Presley

Quella sera aveva piovuto che Dio la mandava, e stava ricominciando di nuovo mentre i quattro si dirigevano verso la palazzina del volano passando per il sottopassaggio. Billy disse che era stufo marcio di tutta quell’acqua, avrebbe voluto che la smettesse. Al che Elvis disse allegramente: «Non c’è problema. Ci penso io». Sollevò le mani al cielo, e la pioggia cessò all’improvviso. «Visto? Cosa ti avevo detto?» dichiarò con quella sua strizzatina d’occhio che non ti lasciava mai intendere se scherzasse o facesse sul serio. «Se hai un po’ di fede, puoi far smettere di piovere.»

Ginger e Jo fecero appena in tempo a fare qualche tiro che dovettero lasciare il campo ai ragazzi. Ma Elvis si stancò subito, e in breve il gioco degenerò in una partita di palla avvelenata, con Elvis che cercava di colpire Billy a ogni tiro. Alla fine si fece male allo stinco con la sua stessa racchetta, e mollò la presa. «Cavolo se fa male!» disse tirando su i pantaloni per vedere la brutta botta. «Al che Billy, scimmiottando uno dei detti preferiti del cugino, sentenziò: “Dove non c’è sangue, non c’è dolore”. E scoppiarono tutti a ridere mentre Elvis gli lanciava la racchetta.»

In seguito Elvis si mise al piano nella sala interna della palazzina

In seguito Elvis si mise al piano nella sala interna della palazzina, e si sbizzarrì cantando alcuni brani, l’ultimo dei quali era il tristissimo Blue Eyes Crying in the Rain, di Willie Nelson. Appena a casa si fece aiutare da Billy a lavare e asciugare i capelli, e diede una pigra occhiata al libro sulla Sacra Sindrone di Torino che gli aveva portato Larry. Accennò al fatto di invitare Alicia Kerwin per la prima parte del tour, ma Billy capì che lo diceva così, tanto per dire.

Poi, ancora una volta, parlò del suo progetto di uccidere Red e Sonny, attirandoli a Graceland con una scusa, ma, anche in quel caso, era chiaro che non ne avrebbe fatto nulla. E ancora ribadì quella che era diventata ormai un’idea fissa, che quello sarebbe stato il suo tour migliore in assoluto, e Billy lo lasciò poco prima che arrivasse Ricky Stanley con la prima delle tre confezioni dei medicinali prescritti, o «di dosaggi», che il dottor Nick aveva incaricato Tish Henley di somministrargli ogni sera.

Ciascuna di esse conteneva quantità variabili di Seconal, Placidyl, Valmid, Tuinal, Demerol, e un insieme di altri ansiolitici e placebo, che ottenevano in genere il risultato di far dormire Elvis parecchie ore di seguito.

Questi era ancora sveglio un paio di ore più tardi, quando Ricky venne a portargli la seconda serie di «dosaggi», ma quando venne il momento della terza consegna, Ricky era scomparso, anche se avrebbe dovuto essere in servizio fino a mezzogiorno. Tish era già andata al lavoro, allora Elvis la fece cercare da sua zia Delta nello studio del dottor Nick e, dopo essersi consultata con il medico, Tish incaricò il marito di portare a Delta la terza dose di medicinali, che consisteva in due Valmid e un Placidyl.

Non appena la zia gli ebbe consegnato il tutto

 

Non appena la zia gli ebbe consegnato il tutto, Elvis la informò che non si sarebbe alzato fino alle sette di sera. Poco dopo disse a Ginger che sarebbe andato in bagno a leggere.

Ginger si svegliò all’incirca all’una e mezza, si girò su un fianco, e tornò a dormire per qualche minuto.

Poi chiamò sua madre, che le domandò come stava Elvis, e lei rispose che non lo sapeva, perché non era tornato a letto, e che avrebbe fatto meglio a controllare. Si lavò e si truccò nel suo bagno, dopo di che bussò alla porta del bagno di Elvis.

Dato che nessuno rispondeva, entrò e lo vide steso sul pavimento, il pigiama abbassato fino alle caviglie, il viso sepolto in una pozza di vomito sul tappeto di lana spessa. Fuori di sé telefonò di sotto e chiese di parlare con qualcuno in servizio, e la cameriera la mise in contatto con Al Strada, al quale disse di salire immediatamente, che era successo qualcosa di grave.

Al era curvo sopra Elvis quando Joe arrivò di corsa su per le scale. I due uomini insieme riuscirono a girare il corpo, e Joe cominciò a praticargli la respirazione bocca a bocca.

Era come se il tempo si fosse fermato per un istante, poi tutto riprese a muoversi e, in men che non si dica, la stanza si riempì di gente, e arrivò Vernon sostenuto da Patsy Presley, il volto terrorizzato, che gridava: «Oh, Dio, figlio mio! Ti prego, non te ne andare! Non morire, ti prego!» Joe continuava a darsi disperatamente da fare, pur sapendo, come tutti gli altri, che non c’erano più speranze: la faccia di Elvis era gonfia e violacea, la lingua biancastra pendeva fuori dalla bocca, i bulbi oculari erano iniettati di sangue. In mezzo a tutto il trambusto arrivò Lisa.

«Cosa è successo a papà?» domandò, mentre Ginger si affrettava a chiudere la porta del bagno

«Cosa è successo a papà?» domandò, mentre Ginger si affrettava a chiudere la porta del bagno. «È successo qualcosa al mio papà, e io lo scoprirò», dichiarò la piccola, e qualcuno bloccò l’altro ingresso del bagno, mentre lei faceva il giro per cercare di entrare.

Tutti quanti erano in preda alla disperazione e alle lacrime quando arrivarono i due operatori della EMT (Emergency Medical Technicians) con un’ambulanza dalla Rimessa delle autopompe n. 29 di Whitehaven, a pochi minuti da Graceland. Costoro furono testimoni di quella che in seguito descrissero come la scena di una strage, con almeno una dozzina di persone ammassate intorno a un corpo quasi irriconoscibile, che li supplicavano di fare qualcosa – ma non c’era proprio niente che potessero fare?

Un uomo con gli occhiali montati in oro e una maglia da football con la scritta «Hawaii 75», che seppero poi essere Al Strada, disse loro che secondo lui Elvis era morto per overdose, la stessa versione che avevano sentito quando erano giunti ai cancelli, e non conoscevano ancora l’identità della vittima. Non c’erano segni vitali, e pochi erano i dubbi sulla sentenza finale quando caricarono il corpo su una barella e, con l’aiuto di Al, Joe e Charlie, lo trasportarono fuori dall’ingresso principale, dove c’era un’ambulanza in attesa. Vernon tentò invano di andare insieme a loro, ma venne trattenuto con gentilezza. «Verrò con te, figlio mio», urlava disperatamente. «Starò con te.»

Il dottor Nick apparve con la sua Mercedes verde proprio mentre percorrevano il viale. Era talmente agitato che entrò come una furia nel cancello, saltò giù dalla macchina e fece in tempo a raggiungere Joe e Charlie nel retro dell’ambulanza.

«Respira, Elvis, dai, fallo per me!» ripeteva in continuazione

«Respira, Elvis, dai, fallo per me!» ripeteva in continuazione, mentre tentava in ogni modo di rianimare il corpo di Elvis per tutti i sette minuti della corsa verso il Baptist Memorial Hospital. Aveva un’espressione incredula, notarono gli addetti all’ambulanza, come se gli riuscisse difficile credere che Elvis Presley potesse mai morire.

Arrivarono all’ospedale alle 2:55 del pomeriggio, venticinque minuti dopo la prima chiamata. Era stata preparata la Sala di rianimazione n. 1, e una squadra di medici e specialisti era pronta a intervenire, ma non c’era molto da fare, e alla fine decisero unanimemente di arrendersi.23 Erano le 3,30. Joe, Charlie e alcuni altri ragazzi, che erano venuti per proprio conto, stavano aspettando nella Sala n. 2, quando sulla porta apparve il dottor Nick.

«È finita, è morto», comunicò il medico, anche se il suo sguardo sarebbe già stato sufficientemente eloquente, e si misero tutti a piangere. Charlie avanzò barcollando verso la porta come se volesse scappare, ma venne trattenuto da Joe. Dovevano ricomporsi, gli disse Joe in lacrime, prima di uscire a diffondere la notizia.

Joe e il dottor Nick dovettero sbrigare immediatamente un sacco di faccende pratiche. Joe chiese all’amministratore dell’ospedale, Maurice Elliott, il permesso di usare il suo ufficio e, dopo essersi rifugiato lì dentro, telefonò al Colonnello a Portland. Fu impossibile decifrare la sua reazione immediata: per un attimo, come disse Joe, fu «un silenzio di tomba», ma subito dopo il vecchio si riprese e cominciò a elencare tutte le cose che avrebbero dovuto fare, a partire dalla cancellazione del tour.25 Joe non era sorpreso più di tanto mentre buttava giù l’elenco: in diciassette anni di collaborazione, non gli era mai capitato di sentire il Colonnello perdere tempo a soffermarsi sulla morte.

Nel suo mondo evidentemente non c’era spazio per le nostalgie

Nel suo mondo evidentemente non c’era spazio per le nostalgie e, quando veniva a mancare un vecchio collega, accadeva raramente che lo nominasse ancora, si limitava a voltare pagina. Dopo avergli promesso che l’avrebbe richiamato più tardi da casa, Joe avvertì Priscilla, che accolse la notizia, proprio come lui si aspettava, con un misto di shock e di fatalismo.

Come stava Lisa? gli domandò tra le lacrime, e Joe cercò di tranquillizzarla dicendole che andava tutto bene.

Intanto, il dottor Nick si era fatto garantire da Maurice Elliott che il decesso non sarebbe stato reso noto ufficialmente finché lui non avesse provveduto di persona a informare Vernon Presley. Elliott disse che non sapeva per quanto tempo ancora avrebbe potuto tenere a bada i giornalisti, che avevano già cominciato a riunirsi davanti all’ospedale non appena si era sparsa la notizia che Elvis era stato ricoverato a causa di «gravi problemi respiratori», e Nick si fece riaccompagnare a Graceland dal personale dell’ambulanza, temendo fra l’altro che Vernon potesse aver bisogno del loro intervento nell’apprendere la notizia.

Aveva con sé un modulo da fargli firmare per l’autorizzazione all’autopsia, studiato in modo tale che lui e Maurice potessero evitare il coinvolgimento del coroner di Stato e impedire che i risultati dell’autopsia diventassero di pubblico dominio senza il consenso dei familiari. Joe sarebbe rimasto all’ospedale per dare il comunicato ufficiale non appena Nick avesse comunicato il benestare.

Quando Nick entrò in casa Lisa stava piangendo,

Quando Nick entrò in casa Lisa stava piangendo, e Vernon si raggelò nel vedere la borsa con gli effetti personali di Elvis nelle mani del medico.26 «Oh, no, no, no», gridò. «È morto!» Nick assentì dirigendosi verso di lui. «Mi dispiace», disse, mentre i lamenti del padre disperato riempivano la casa intera. «Come farò adesso?» si disperava il vecchio, con i due assistenti del pronto soccorso che cercavano di assisterlo. «È tutto finito.»

La stanza, come venne definita da Ulysses S. Jones della EMT, «era un covo d’isterismo. La gente si agitava avanti e indietro piangendo, gemendo e urlando. Vernon tremava come una foglia… non riusciva a stare fermo. Il medico lo accompagnò in cucina. Lisa correva per tutta la casa e gridava: “È morto il mio papà!”… Ginger girava inebetita, ma alla fine si occupò di Lisa Marie e cercò di calmarla ritirandosi con lei in un’altra stanza». Nel frattempo Nick chiamò l’ospedale e disse a Maurice Elliott che poteva procedere a informare la stampa.

Alla fine Joe non fu in grado di assolvere a tale compito: ogni volta che cercava di rivolgersi ai giornalisti, gli si strozzava la voce in gola, e Charlie non riuscì a fare di meglio, perciò la palla venne passata a Maurice Elliott, l’amministratore dell’ospedale, che aveva avuto più di un’occasione di incontrare Elvis in tutti quegli anni. «C’erano telecamere e microfoni di ogni tipo, il locale era stipato di persone, e all’improvviso pensai: “Per la miseria! Ho davanti il mondo intero, e tocca proprio a me annunciare la morte di Elvis Presley!”»

Quando Joe e Charlie furono di ritorno a Graceland

Quando Joe e Charlie furono di ritorno a Graceland, grazie a un passaggio della polizia, videro parecchi fan fuori dai cancelli. Sotto la direzione del servizio di sicurezza di Elvis, era già stato fatto un repulisti completo nella camera, il letto rimesso a nuovo, il bagno lavato e pulito a fondo, e ogni cosa era tornata al suo posto, come se l’infausto evento non avesse avuto luogo.27 Quando, non molto tempo dopo, arrivò Dan Warlick, il medico legale della contea di Shelby, accompagnato dal tenente di polizia Sam McCachern e dal procuratore distrettuale Jerry Stauffer, la prima persona che incontrò fu Vernon Presley, che parlava al telefono con qualcuno a voce bassa.

Prima che Warlick si rendesse conto di chi fosse, la voce di Vernon assunse un tono di desolazione inimmaginabile, mentre annunciava al suo interlocutore: «Il mio bambino è morto… me l’hanno portato via, se ne è andato, il mio bambino non c’è più!…» e scoppiava in un pianto dirotto.

Sam Thompson accompagnò di sopra il medico legale e, dopo aver aperto la porta d’accesso alla suite di Elvis, fece entrare Warlick e il suo seguito nello studio. «Sparsi qua e là, su una fila di divani disposti lungo tutto il perimetro della stanza, c’era un’infinità di orsacchiotti di pezza», scrissero nel loro autorevole studio, The Death of Elvis, i cronisti Charles C. Thompson II e James P. Cole. «Ce n’erano ovunque, tutti rivolti obbedientemente verso una grandissima scrivania, sopra la quale c’era un cartello con scritto ELVIS PRESLEY, THE BOSS.

Le pareti erano rivestite in pelle o finta pelle… la stanza era compenetrata da un misto di innocenza infantile e dura realtà, con in primo piano l’animaletto più grande e sullo sfondo una siringa [usata] che Warlick notò davanti al cartello… Warlick oltrepassò la scrivania e dallo studio entrò in camera da letto. Sulla parete più lontana vide due o tre apparecchi televisivi appoggiati su una mensola molto spaziosa e orientati verso il letto matrimoniale più grande che Warlick… avesse mai visto in vita sua. In cima all mensola trovò una seconda siringa usata come la prima.»

Diede immediatamente l’ordine di non alterare in alcun modo la scena, pur essendo ben consapevole dell’inutilità della sua precauzione ancor prima di entrare nel bagno, rivestito da un tappeto di color rosso cupo, con un tappetino giallo davanti a una toilette nera, e un altro televisore, sistemato in modo da poter essere visto dalla tazza.

«C’erano due telefoni e qualcosa che sembrava un citofono piazzati vicino al contenitore della carta igienica», scrissero ancora Thompson e Cole in un vivace resoconto delle ultime osservazioni di Warlick. «In vari punti del bagno c’erano delle comode poltrone. Il pezzo più imponente era comunque una enorme doccia circolare con un diametro che superava i due metri… con una graziosa poltroncina in finta pelle al centro… Sulla destra dell’ingresso c’era un ripiano di marmo chiaro lungo quasi quattro metri con un lavabo color porpora incastrato nel mezzo.

La parete sopra il ripiano era ricoperta per tutta la lunghezza da uno specchio bordato di grandissime lampadine chiare. Lì vicino, Warlick notò la presenza di una borsa nera. Era la classica borsa da medico, sormontata sul davanti da un risvolto che terminava con una chiusura a fibbia. All’interno c’erano una serie di cassettini di plastica neri, tutti vuoti.»

Come pure l’armadietto farmaceutico. E neanche nella camera da letto esisteva la minima traccia dei più comuni medicinali. Warlick dichiarò che era la prima volta, in quattro anni di lavoro, che si trovava di fronte all’assenza completa di farmaci, ricette o cose del genere, a casa di un fanatico Cristiano Scientista. Anche il racconto degli eventi che il medico ricostruì in numerose interviste condotte quel pomeriggio era certamente stato rettificato.

La sola cosa che non era stata fatta sparire, a parte le siringhe usate, fu il libro che Elvis stava leggendo nel bagno quando morì, un’analisi dell’energia sessuale e psichica che metteva in relazione i segni astrologici con le posizioni sessuali. Warlick individuò una macchia sulla moquette del bagno, che quasi di sicuro indicava il punto in cui Elvis aveva vomitato dopo essersi sentito male, probabilmente mentre era seduto sulla tazza.

Il medico inoltre si fece l’idea che Elvis, «prima di morire, avesse camminato barcollando e si fosse mosso carponi per parecchi metri».

Quando Warlick arrivò in ospedale, poco prima delle sette, l’autopsia stava per iniziare. Il fatto che il dottor Nick fosse presente, non in veste ufficiale, ma come osservatore, significava che quella morte, avvenuta in circostanze ignote e non dovuta con ogni probabilità a cause naturali, sarebbe stata trattata esclusivamente come una questione privata, nonostante la preoccupazione del procuratore distrettuale di trasferire il corpo di Elvis all’ospedale cittadino, dall’altra parte della strada, dove il coroner avrebbe agito come funzionario pubblico sotto il mandato dello Stato. Invece, forti del consenso ottenuto da Vernon, nove patologi del Baptist Hospital eseguirono l’operazione nella piena consapevolezza che il mondo intero li osservava, ma che i risultati sarebbero stati resi noti solamente al padre di Elvis.

«I nostri patologi non volevano che l’autopsia di un uomo della fama di Elvis scatenasse le medesime controversie sorte nel caso di quella del presidente Kennedy», dichiarò Maurice Elliott. «Volevano essere certi di non mettere in difficoltà l’ospedale.» Al tempo stesso sapevano di avere i minuti contati; infatti, erano appena all’inizio dell’esame quando il medico legale della contea di Shelby, Jerry Francisco, e il primario patologo dell’ospedale, il dottor Eric Muirhead, partirono con altri cinque medici e con il dottor Nick per prendere parte a una conferenza stampa che il dottor Francisco aveva convocato per le otto.

In quella sede il dottor Francisco comunicò i risultati dell’autopsia, benché la stessa fosse ancora in corso. Il decesso, disse, era stato «causato da aritmia cardiaca conseguente a battito cardiaco irregolare». «Muirhead», scrissero nel loro libro Thompson e Cole, «era visibilmente imbarazzato. Sussultò quando Jerry Francisco passò ogni limite avendo la sfacciataggine di comprovare le sue deduzioni cliniche con l’uso di un linguaggio scientificamente ambiguo dal punto di vista cardiologico. A ogni modo non intervenne per contraddire il collega. “Avrei fatto meglio a parlare”, dichiarò in seguito.» Al momento non c’erano tuttavia risultati di cui riferire.

L’autopsia continuò per altre due ore. Vennero prelevati campioni da conservare con cura; dall’esame degli organi interni il cuore risultò ingrossato; fu osservata una rilevante arteriosclerosi coronarica; il fegato era notevolmente danneggiato, e l’intestino crasso era occluso da materiale fecale, a indicare una situazione dell’intestino tenue compromessa da lungo tempo.

 

Le condizioni dell’intestino sarebbero già state sufficienti a suggerire ai medici quello che a quel punto avevano ragione di sospettare dalla storia clinica di Elvis, dal deterioramento del fegato, e dalle numerose prove aneddotiche: l’uso di droghe era altamente responsabile della morte prematura di un uomo di mezza età, senza particolari problemi cardiologici, che era stato «attivo e funzionale fino a sette ore prima del decesso».

Forse era stato colto da malore mentre «si sforzava sul water», né si poteva escludere l’eventualità di uno shock anafilattico indotto dalle pillole di codeina che gli erano state prescritte dal dentista, verso le quali aveva manifestato da tempo una leggera allergia.

I patologi, tuttavia, attendevano con fiducia i risultati del laboratorio, sicuri che questi avrebbero ribaltato le dichiarazioni precipitose e vaghe del dottor Francisco, come alla fine avvenne. Vi fu infatti ben poca discrepanza tra i due principali referti delle analisi di laboratorio, registrati due mesi più tardi, che attribuivano la causa principale della morte all’abuso di farmaci, e la relazione presentata dai Bio-Science Laboratories, inizialmente schedata con il nome «Ethel Moore», che indicava la presenza di quattordici droghe nell’organismo di Elvis, dieci delle quali in quantità significative.

Risultava una presenza di codeina dieci volte superiore al limite terapeutico, l’assunzione di metaqualone (Quaalude) in dose probabilmente nociva, e la traccia di altri tre farmaci già di per sé ai limiti della tossicità, e si doveva inoltre tenere in forte considerazione «l’effetto combinato della codeina e dei tranquillanti sul sistema nervoso centrale».

Quasi inspiegabilmente, il dottor Francisco e l’ufficio di medicina legale rimasero fedeli alle loro diagnosi iniziali, e il dibattito sulla morte di Elvis Presley sarebbe imperversato per più di venti anni attraverso processi e azioni legali, radiazioni e reintegrazioni mediche, tentativi di accuse, smentite e riabilitazioni troppo numerose per essere ricordate.

Tuttavia, sarebbe stato sufficiente guardare attentamente la vita di Elvis, la sua dipendenza sempre più rapida dai medicinali che riusciva a procurarsi in quantità inimmaginabili, i tanti medici compiacenti che non sembravano minimamente preoccuparsi dei pericoli né delle possibili conseguenze che le loro facili prescrizioni avrebbero potuto implicare, nonché gli inconfutabili accertamenti clinici che evidenziavano l’abuso di droghe da parte di Elvis negli ultimi quattro anni, per comprendere le cause del suo decesso.

Joe venne incaricato di occuparsi dei funerali, ma Vernon espresse le sue preferenze riguardo a ogni dettaglio di qualche rilevanza. L’idea originaria era di celebrare il servizio funebre alla Memphis Funeral Home, dove erano state officiate anche le esequie della madre di Elvis, ma Vernon manifestò poi il desiderio di svolgere la cerimonia a casa, come lui e il figlio avrebbero voluto fare per Gladys.

Non fu possibile dissuaderlo dalla decisione di dare ai fan l’opportunità di vedere le spoglie di Elvis – erano rimasti fedeli a suo figlio dall’inizio alla fine, e lui aveva sempre sostenuto che, senza di loro, non sarebbe diventato nessuno. Con la mente rivolta a queste e ad altre cose, Joe mandò il Lisa Marie in California a prendere Priscilla, Jerry Schilling, la sua attuale compagna, Shirley Dieu, e l’ex moglie Joanie, e infine i parenti più stretti di Priscilla. Si occupò anche dell’organizzazione del viaggio di Linda Thompson, Ed Parker, e numerose altre persone che Priscilla non voleva incontrare sul suo stesso aereo, ma perlopiù dissuase molta gente dall’idea di partecipare al funerale, che, temeva, avrebbe rischiato di diventare una specie di giardino zoologico.

Vernon volle una bara in bronzo simile a quella di Gladys, e Bob Kendall, il direttore della cerimonia funebre, riuscì a trovarne una a Oklahoma City, oltre ad aver in qualche modo reperito diciassette limousine bianche Cadillac per il corteo, benché in città non ve ne fossero più di tre. Elvis sarebbe stato sepolto con un completo bianco regalatogli dal padre, che chiese a Charlie e a Larry di sistemargli i capelli in modo che i fan potessero ancora ammirarlo.

La centrale telefonica della zona sud pregò gli abitanti di limitare le chiamate ai casi di emergenza, tanto le linee erano intasate, e i fioristi locali vennero sommersi da una tale quantità di ordinazioni, più di tremila, che si videro costretti a rifornirsi altrove per soddisfare le richieste

. Circa alle dieci del mattino Vernon telefonò al reverendo C. W. Bradley, ministro della Wooddale Church of Christ, che la moglie disaffezionata di Vernon, Dee, era solita frequentare. Vernon lo conosceva a malapena, non essendo molto praticante, ed Elvis l’aveva incontrato solo in occasione dei funerali degli zii, ma il reverendo si rese conto delle ragioni per cui il signor Presley desiderava per il figlio una cerimonia adeguata.

«Mi chiese: “Fratello Bradley, sarebbe disposto a celebrare i funerali di mio figlio?” Naturalmente gli risposi di sì. Quindi aggiunse: “So che la chiesa non dispone di strumenti musicali, e noi vorremmo poter utilizzare un organo. Le dispiace?” Bradley gli disse che non c’erano problemi, “e cominciammo a discutere del tipo di cerimonia che voleva”.»

Ci sarebbe stata parecchia musica, precisò, il genere di vecchie canzoni da quartetto che Elvis amava tanto fin da quando era bambino – J. D. Sumner e gli Stamps, gli Statesmen, Jake Hess e James Blackwood accettarono di intervenire – e lui sperava che il reverendo Bradley non sollevasse obiezioni; inoltre, il tele-predicatore Rex Humbard, a cui Elvis si era rivolto per un consiglio il dicembre dell’anno precedente, aveva chiesto di poter dire due parole. Il reverendo acconsentì a tutte le richieste con piacere. Non molto tempo dopo, l’arrivo di Priscilla con il suo gruppo fu occasione di lacrime e altri ricordi dolorosi, in mezzo ai quali Joe colse l’opportunità di consegnarle le Polaroid e i videotape segreti che Elvis aveva conservato per tutti quegli anni.

Larry e Charlie si presentarono all’impresa di pompe funebri, secondo il desiderio di Vernon, nelle prime ore del mattino successivo. Charlie spuntò e colorò le basette di Elvis, mentre Larry gli tagliò e acconciò i capelli, poi si consultarono per il trucco. Joe fece spostare tutti mobili della sala prima dell’arrivo bara, che giunse poco prima di mezzogiorno su un carro funebre bianco, preceduto da una scorta di motociclette.

La folla davanti all’abitazione, che ormai consisteva in più di cinquantamila persone, fece un gran clamore per poter dare un’occhiata alla bara di bronzo che veniva trasportata su per i gradini nell’ingresso principale. Nel frattempo, parecchi fan si erano arrampicati sugli alberi nei dintorni della Graceland Christian Church, che era lì vicino, e si sentiva il rumore dei rami che si spezzavano nel tentativo di costoro di acquisire una migliore visuale.

La bara fu sistemata nel passaggio tra il salotto e la sala della musica nella zona sud della casa, e familiari e amici ebbero modo di porgere il loro estremo saluto prima dell’apertura al pubblico, prevista a metà pomeriggio. Vernon non si reggeva in piedi, la nonna era sul punto di collassare, e il Colonnello, che era arrivato da Portland il mattino presto, rifiutò categoricamente di vedere il corpo del defunto. Nessuno ricordava che il Colonnello avesse mai partecipato a un funerale prima di allora e, neppure in quella occasione, si lasciò andare a commenti personali di alcun genere.

Non ce ne fu comunque bisogno. Era impossibile ignorare la foga dei suoi colloqui con Vernon in cucina, mentre attaccava bottone al padre disperato cercando di fargli capire la serietà della situazione in cui si erano venuti a trovare, nonché la necessità, pur in un momento di doloroso lutto, di preoccuparsi per il futuro. Era proprio come quando Elvis si trovava in Germania, gli disse, anche allora c’erano degli avvoltoi pronti ad avventarsi su di loro per approfittare della situazione.

Con ogni probabilità c’era già un buon numero di imprenditori che si davano da fare per avvantaggiarsi del nome e sfruttare un prodotto che apparteneva invece a buon diritto soltanto a Vernon e alla piccola Lisa Marie. Vernon assentiva mentre l’altro enfatizzava il bisogno di non perdere neppure un minuto, di muoversi immediatamente – rimandare anche di pochi giorni avrebbe potuto essere fatale.

Il bel viso desolato di Vernon rifletteva un tale dolore che non poteva neppure essere espresso, perciò era ben difficile capire fino a che punto questi fosse in grado di afferrare il senso delle parole che si sentiva dire dal Colonnello, mentre tacitamente dava segni di assenso. Si limitò a rassicurarlo che tutto sarebbe continuato come prima, che non ci sarebbe stato nessun cambiamento, perché sapeva bene che il Colonnello aveva a cuore i loro interessi.

Vi erano guardie del corpo sui tre lati esposti della bara, e Vernon non perdeva d’occhio la situazione, come se volesse difendere il figlio da qualche pericolo incombente. Tuttavia, non riuscì a proteggerlo da morto più che da vivo dal tradimento, poiché uno dei cugini fotografò Elvis nella bara con una Minox tascabile che gli era stata fornita dal «National Enquirer», il che fu scoperto da Vernon solo quando il tabloid pubblicò la foto sulla copertina del primo numero successivo all’evento.

Nella foto Elvis appare pallido e cinereo, ma ancora sorprendentemente bello, composto e rilassato fino a sembrare quasi irriconoscibile per coloro che avevano il ricordo di un uomo che non era mai stato in pace con se stesso. L’affezionata diarista Donna Lewis interpretò il sentimento di molti scrivendo nel suo giornale che Elvis non assomigliava affatto a se stesso: «era straziante… faceva male. Faceva davvero male!»

Alle cinque Vernon, vedendo il numero impressionante di gente che ancora aspettava ai cancelli, prese la decisione di prolungare i tempi dell’apertura al pubblico di un’altra ora e mezza. Aveva cominciato a piovere leggermente, ma ciò non impedì alla folla di continuare la triste, lenta sfilata, finché, al momento stabilito, i cancelli vennero chiusi. «Sembrava una continua toccata e fuga», scrisse Chet Flippo su «Rolling Stone», mentre all’incirca diecimila persone assemblate là fuori «si accalcavano ai cancelli tra urla, pianti e singhiozzi.»

Ma i fan di Elvis Presley si erano sempre comportati bene nei confronti del loro idolo; anche quando gli altri lo dileggiavano, la loro lealtà non aveva mai vacillato, e anche in quell’occasione non furono da meno. Una dozzina di poliziotti provvide alla chiusura dei cancelli temendo possibili tafferugli, ma circa trenta minuti dopo la folla cominciò lentamente a disperdersi. «Il muretto di pietra che dava sull’Elvis Presley Boulevard era abbastanza basso da poter essere scalato», commentò Flippo, «ma nessuno ci provò.»

Dopo l’esposizione al pubblico, la bara venne nuovamente trasportata nel salone dove, il giorno successivo, sarebbe stato celebrato il rito funebre, e la sera fu dedicata a una specie di veglia privata. Al cantante soul James Brown fu concesso di rimanere per qualche tempo solo con la salma; tutto sommato non vi fu un grande afflusso di personaggi celebri, il che era in sintonia con il tipo di cerimonia che Vernon aveva volutamente scelto. Charlie sembrava quasi istupidito, Joe cercava di tenere d’occhio tutti i parenti, e il Colonnello era stranamente silenzioso, mentre Vernon andava ripetutamente nella sala per carezzare affettuosamente la testa del figlio.

Erano già le dieci passate quando si venne a sapere che la diciannovenne Caroline Kennedy stava aspettando ai cancelli, e fu orgogliosamente accompagnata alla porta d’ingresso. Vernon non riusciva a spiegarsi come mai la figlia del presidente assassinato fosse arrivata di sera tardi a fare le condoglianze, finché non venne a sapere che la ragazza lavorava per un quotidiano di New York come tirocinante durante il periodo estivo, e che aveva intervistato le persone per la strada…

«Lo zio di Elvis, Vester, la zia Delta e la zia Nash, e la nonna di 82 anni… guardavano il notiziario delle dieci sugli eventi del giorno», riferì in un articolo che alla fine venne pubblicato sulla rivista «Rolling Stone», tratteggiando vivide descrizioni dei pochi momenti che riuscì a catturare prima che venisse pregata gentilmente di andarsene.

In seguito, su richiesta di Priscilla, Sam Thompson invitò tutti ad andare a casa, per consentire alla famiglia di riposare un poco, e rimase da solo a vegliare la salma tutta la notte, finché arrivò Dick Grob a prendere il suo posto.40 Migliaia di fan indugiavano ancora ai cancelli, e due di loro vennero uccisi sul colpo quando una Ford bianca del 1963, guidata da un diciottenne definito dalla madre «malato di mente», andò a sbattere contro un gruppo riunito in una corsia chiusa, nella parte centrale della strada, a una velocità di quaranta miglia all’ora.

Alle nove del mattino un centinaio di furgoni cominciarono a portare i fiori al cimitero, un impegno che richiese quasi quattro ore di lavoro e che si temette per un momento non potesse essere assolto prima dell’inizio della sepoltura. A mezzogiorno iniziarono ad arrivare i partecipanti al funerale, che sarebbe stato celebrato alle due. I cantanti si erano riuniti qualche tempo prima in camera di Charlie per accordarsi sulle esecuzioni. Su suggerimento di Priscilla, Kathy avrebbe cantato Heavenly Father, il suo pezzo forte che non mancava mai di mandare in estasi Elvis, accompagnata al piano dal fondatore degli Statesmen Hovie Lister.

James Blackwood, che aveva cantato ai funerali di Gladys Presley e conosceva Elvis da quando, da ragazzino, faceva il tifo per i Blackwood Brothers, si sarebbe esibito nel brano che era in un certo senso la sigla di Elvis, How Great Thou Art, sotto la direzione simbolica di Joe Guercio. Jake Hess, ex solista degli Statesmen e uno dei cantanti che Elvis aveva amato da sempre, avrebbe ricreato Known Only to Him, una delle tante canzoni che l’avevano reso famoso e che Elvis aveva voluto registrare come esplicito omaggio al suo idolo. Alla fine, J. D. Summer e gli Stamps sarebbero intervenuti in vari momenti del programma con una scelta di inni provenienti perlopiù dai brani del repertorio che erano soliti presentare.

Linda indossava un completo color lavanda, e Kathy era vestita di bianco, pensando entrambe che Elvis le avrebbe volute vedere così. Gli abiti degli altri erano più o meno in sintonia con il colore del lutto. Solamente il Colonnello si distingueva per il suo abbigliamento, come sempre, anticonformista. Ammonì l’imprenditore Tom Hulett, mentre erano in procinto di lasciare l’hotel, «Non si è mai messo in cravatta per lui quando era vivo…» e lo indusse ad andare a togliersela.

Lui portava il suo immancabile cappellino da baseball, pantaloni a strisce di tela indiana, e una camicia azzurra a maniche corte, non preoccupandosi minimamente di violare le regole del buon gusto. I duecento invitati entrarono ordinatamente nella sala e aspettarono l’inizio della funzione. Il governatore del Tennessee Ray Blanton e Chet Atkins erano arrivati da Nashville, Ann-Margret e suo marito, Roger Smith, erano venuti da Las Vegas con il dottor Ghanem, e c’era un’ampia rappresentanza dei soci d’affari del Colonnello e dei vertici della RCA, ma furono soprattutto i familiari e gli amici a riempire le sedie pieghevoli di legno e a riversarsi nell’ingresso, dove il Colonnello rimase tutto il tempo appoggiato contro una parete, facendo di tanto in tanto capolino nella sala.

La funzione prese il via con l’esecuzione di Danny Boy all’organo. La previsione era che sarebbe durata non più di mezz’ora ma, con il sermone di Rex Humbard, tutti i brani musicali, e l’elogio funebre dell’attore comico Jackie Kahane pronunciato col permesso di Vernon, si capì sin dall’inizio che i tempi della cerimonia sarebbero stati notevolmente più lunghi.

Humbard parlò del suo incontro con Elvis a Las Vegas e ricordò quando si era inginocchiato a pregare insieme a lui. Jackie Kahane, che ebbe l’idea di rendere un omaggio informale quando si rese conto che nessun altro del gruppo l’avrebbe fatto, pronunciò un discorso breve ma piacevole imperniato sull’amicizia che si era stabilita tra tutti loro e sull’originalità e la generosità del loro leader. Quando Kathy cantò Heavenly Father, con un accompagnamento di Hovie Lister che aveva poco in comune con quello di David Briggs o di Glen D., immaginò di sentire Elvis che «diceva ridacchiando: “Ma non è così che l’avevamo arrangiata!”» Il sermone principale, tenuto dal reverendo Bradley, metteva in evidenza l’esempio che Elvis aveva dato come «essere umano sostenuto da un forte desiderio e da un’incrollabile determinazione».

Elogiò la grande modestia del cantante, e ricordò come «in una società dove si fa tanto parlare di gap generazionale, la percezione dell’intimità di Elvis con il padre… riscaldasse i cuori». Ma Elvis, proseguiva il reverendo Bradley, era anche «un essere umano con le sue fragilità, e sarebbe stato il primo a riconoscere la propria debolezza. È stata forse la sua repentina ascesa alla fama e al successo a metterlo di fronte a tentazioni che sono risparmiate alla maggior parte delle altre persone.

 

Elvis non avrebbe voluto essere ricordato senza difetti e senza vizi. Ma, ora che se ne è andato, ritengo molto più opportuno rammentare le sue buone qualità, e mi auguro che sia così anche per voi». Gli accorati singhiozzi di Vernon si avvertirono per l’intera durata della cerimonia, alla fine della quale tutti i partecipanti si misero in fila per porgere un saluto di commiato. Ann-Margret tentò di consolare Vernon, ma finì per mettersi a piangere insieme a lui.

Poi i nove portatori della bara – Joe, Charlie, Felton, Lamar, Jerry Schilling e George Klein, i cugini di Elvis Billy e Gene Smith, e il dottor Nick – portarono via il feretro. Non appena furono fuori, un ramo di una grande quercia si staccò e cadde davanti a loro, schivando per puro caso il corteo funebre, e Lamar non poté evitare di fare una battuta. «Sapevamo che ti saresti fatto vivo», sentenziò, «ma non così presto.»

Percorsero i circa cinque chilometri di strada verso il cimitero

Percorsero i circa cinque chilometri di strada verso il cimitero con un corteo composto da quarantanove macchine, con in testa una Cadillac color argento, una scorta di moto di polizia, un carro funebre bianco, e Vernon seduto nella prima di diciassette limousine bianche. Su entrambi i lati della strada era schierata una folla, stimata dalle quindici alle ventimila persone, e Joe individuò tra queste Cliff Gleaves con un’espressione molto triste mentre il carro procedeva. Evidentemente non era stato invitato a entrare perché nessuno ai cancelli l’aveva riconosciuto.

Una volta arrivati al cimitero, la bara, ricoperta di petali di rosa, venne trasportata su per le scale in un mausoleo di un grigio intenso, non molto lontano dalla tomba di Gladys Presley, superando enormi ammassi di composizioni floreali, cagnolini di pezza, corone, cuori infranti, chitarre e ramoscelli di rose rosse e gialle, tutti offerti come umili testimonianze di affetto.

Nel mausoleo, con il pavimento ricoperto

Nel mausoleo, con il pavimento ricoperto dalle rose che erano sul feretro, il reverendo Bradley celebrò una breve cerimonia della durata di cinque minuti, poi ogni membro della famiglia si mise in fila davanti alla bara per un ultimo bacio.

Vernon rimase solo con il figlio per qualche minuto, dopo che tutti se ne furono andati, e dovette essere sostenuto quando riemerse dall’edificio. In seguito, il mausoleo venne sgombrato, riferì il «Commercial Appeal», e «cinque operai entrarono nel locale con una carriola colma di sabbia, un secchio con circa venti litri d’acqua, un po’ di cemento, e una cassetta degli attrezzi». Sigillarono la cripta con una doppia soletta di calcestruzzo, quindi applicarono un rivestimento di marmo, che sarebbe stato iscritto in un secondo tempo. «Ancor prima che gli operai avessero completato la sepoltura, la gente cominciò a entrare nel cimitero dal retro e ad accalcarsi contro le pesanti porte d’acciaio del mausoleo.»

Nel frattempo, tutti tornarono a Graceland

Nel frattempo, tutti tornarono a Graceland per una «cena sudista», e più tardi Vernon dette disposizione che i fiori venissero distribuiti ai fan che, alle 8,25 del mattino successivo, entrarono a migliaia nel cimitero, non appena i cancelli furono aperti. Poco prima di mezzogiorno ne erano già arrivati più di cinquantamila, e non rimase più nessuna traccia di fiori né di profumi.

Nelle due settimane seguenti il Colonnello elaborò i dettagli del suo nuovo progetto di marketing con un uomo di nome Harry «The Bear» Geisler, la cui società, Factors Inc., aveva appena portato a termine con successo una campagna promozionale per Farrah Fawcett-Majors. Vernon diede la sua approvazione formale per la continuazione dell’accordo di Elvis con il Colonnello il 23 agosto, un giorno prima di essere riconosciuto dal tribunale esecutore testamentario del patrimonio.

Il contratto che aveva firmato era praticamente uguale

Il contratto che aveva firmato era praticamente uguale a quello sottoscritto da Elvis l’anno precedente. Riconosceva la Boxcar Enterprises, la più recente incarnazione societaria del Colonnello, come una specie di intermediaria per tutti i diritti promozionali, con il 50 per cento degli incassi della stessa da distribuirsi in ugual misura tra il Colonnello e gli eredi di Elvis Presley, trattenendo il resto dei guadagni come riserva per tutte le spese (inclusi gli stipendi e i bonus, pagati a discrezione del Colonnello), e attribuendo il 56 per cento di ogni altro eventuale introito (fino a quel momento inesistente) al Colonnello, e la rimanenza agli eredi e al socio di vecchia data Tom Diskin.

Vernon sottoscrisse l’accordo senza manifestare dubbi di sorta, e il Colonnello continuò a occuparsi degli affari come sempre, finché non venne ricusato dalla corte di giustizia della contea di Shelby, Tennessee, incaricata di tutelare Lisa Marie, «minorenne, rimasta unica beneficiaria del patrimonio di Elvis A. Presley», in seguito al decesso di Vernon, avvenuto il 26 giugno 1979, nel giorno del settantesimo compleanno del Colonnello.

La RCA avrebbe scoperto che Elvis era un campione di vendite da morto come da vivo

La RCA avrebbe scoperto che Elvis era un campione di vendite da morto come da vivo. Il libro di Red e Sonny, Elvis: What Happened? vendette più di tre milioni di copie, conseguenza forse del ritardo, mai così azzeccato, della pubblicazione, e i due autori mantennero il silenzio sull’argomento per quasi vent’anni.

Ginger Alden trattò la vendita della sua storia in esclusiva con il «National Enquirer», subito dopo la morte di Elvis, per la presunta somma di 105.000 dollari, cifra che venne sostanzialmente ridotta non appena emerse che la ragazza era venuta meno ai termini dell’accordo rilasciando un’intervista che fu pubblicata sul «Commercial Appeal» il 19 agosto.

Non mancò un bizzarro e quasi ridicolo tentativo di trafugare la salma di Elvis a soli undici giorni dalla sepoltura, e un mese più tardi, il 2 ottobre, Elvis e la madre vennero risepolti nel Giardino della Meditazione di Graceland, dopo aver ottenuto regolare permesso. «Finalmente riposeranno in pace», disse Vernon all’esiguo gruppo di presenti alla tumulazione, formato dai parenti più stretti, all’ora del crepuscolo.

Già molto tempo prima della sua morte

Già molto tempo prima della sua morte, la leggenda del successo di Elvis, il cui marchio fu impossibile da registrare persino per il Colonnello, era stata raccontata per filo e per segno in ogni minimo dettaglio, ma poi venne sommersa da un’ondata di ripensamenti che in un primo momento cercarono di negare le «fragilità» che avrebbero accomunato Elvis al resto del genere umano, ma che in seguito si affrettarono a condannarlo.

La cacofonia delle voci armonizzatesi in un coro di pareri infondati, speculazioni avventate, agiografie, simbolismi e accuse, può talvolta essere tacitata con difficoltà, ma alla fine è una sola la voce che conta: quella che il mondo sentì per la prima volta provenire da quei 78 giri gialli della Sun, il cui logo originale, un gallo che canta circondato da raggi di sole audacemente stilizzati e da un contorno di note musicali, cercava di annunciare la nascita di un nuovo giorno.

Non è possibile zittire quella voce; non può andare persa mentre si ascoltano i miracoli vocali di That’s All Right, o di Mystery Train, o di Blue Moon of Kentucky, o di qualsiasi canzone nella quale Elvis ha trasmesso, sino alla fine dei suoi giorni, la consapevolezza delle sue illimitate possibilità. È proprio tale aspirazione senza confini, così come ogni traguardo storicamente raggiunto, che tiene viva la comunicazione con un pubblico che ha individuato da subito affinità spirituali con Elvis. Ed è esattamente questo che dobbiamo ricordare.

La morte di Elvis Presley

Di fronte alla realtà dei fatti, grazie a tutto ciò che siamo venuti a sapere, dobbiamo sgombrare il campo da ogni pregiudizio se vogliamo cogliere il messaggio di Elvis: la liberazione delle emozioni a lungo represse, l’accettazione di una vulnerabilità culturalmente negata, la lotta pacata per la libertà. Può darsi che Elvis Presley si sia smarrito ma, anche nei momenti più bui, non ha mai perso del tutto quella sua trasparenza innocente che fin dall’inizio ha segnato la differenza tra il musicista e l’uomo.

Soprattutto, egli aveva la consapevolezza dei propri limiti. La sua buona fede era dimostrata dall’ammissione di quanto si fosse allontanato dagli obiettivi che si era prefissato di raggiungere – tuttavia, nonostante i dubbi, le delusioni, il disgusto che sovente provava nei confronti di se stesso, i disinganni e le paure, continuò a credere in un ideale democratico di trasformazione e di redenzione, continuò a cercare il legame con un pubblico che lo amava non tanto per quello che era ma per quello che si sforzava di essere.

«Sapete, ho cercato di essere sempre me stesso in ogni istante», dichiarò in un tempo ormai lontano. «Naturalmente si impara a conoscere le persone, e ci si trova coinvolti in diverse situazioni, ma ho cercato comunque di essere sempre me stesso. Voglio dire, per come sono stato cresciuto, ho sempre tenuto in grande considerazione i sentimenti degli altri; in altre parole… non ho mai maltrattato nessuno che abbia incontrato sulla mia strada.

Non firmo autografi e foto e così via per accrescere la mia popolarità o per farmi voler bene. Lo faccio perché so che sono sinceri, che ti vedono e vogliono un autografo da portarsi a casa, e hanno un libro con gli autografi, hanno la macchina fotografica. Non sanno niente della tua vita, non sanno che tipo di persona sei. E allora… io cerco di ricordarmelo. È tutto qui. È facile. È il modo in cui sono stato educato da mia madre e da mio padre, credere nelle persone e rispettarle. Siamo sempre stati molto attenti ai sentimenti degli altri.»

Copyright Baldini Castoldi Dalai editore – Tutti i diritti riservati

Vuoi ricevere Mam-e direttamente nella tua casella di posta? Iscriviti alla Newsletter, ti manderemo un’email a settimana con il meglio del nostro Magazine.

CLICCA QUI PER SAPERNE DI PIÙ!