Pulp Fashion, il lati oscuri della moda. Lavoratrici cinesi
Moda

PULP FASHION, I LATI OSCURI DELLA MODA

Quando la moda è un danno: e noi ne siamo complici

Sostenibilità, rispetto per l’ambiente e diritti dei lavoratori: quando i marchi di moda ci giocano su.

Siamo veramente nell’era dell’eco-sostenibilità o è tutto un fottuto bluff? Secondo quanto riportato da Report, nella puntata del 3 dicembre 2018, gli impostori del fashion biz ci avrebbero manipolati tra buoni propositi e false promesse.

Quanto ti costa l’ipocrisia della moda.

Durante la puntata, Emanuele Bellano, giornalista Rai, si aggira tra i meandri di Paris le Bourget nel quale, al suo interno, migliaia di espositori presentano i tessuti utilizzati per la realizzazione di capi che verranno venduti nelle maggiori piazze worldwide.

2/3 sono asiatici tra cui mille cinesi. Solo due gli italiani: il confronto non regge.

Un capospalla Elena Mirò viene venduto per 40 dollari ma nella boutique il suo valore è 10 volte tanto.

Poi c’è Hengtex Garment (Jiaxing) che vende la sua idea alle grandi griffe del settore come spiega un consulente creativo ai microfoni di Bellano. Patrizia Pepe, ad esempio, pare apporti solo alcune modifiche sui capi come, ad esempio, un ricamo che possa contraddistinguere il pull rispetto ad altri presenti sul mercato e prodotto, appunto, dalla medesima azienda.

Inditex: quando non è tutto oro quello che luccica.

Begüm Tute, responsabile sostenibilità Inditex Turchia, assicura che tutte le fabbriche al quale chiedono supporto lavorativo devono superare alcuni test di valutazione prima di poter diventare fornitori del gruppo.

Ricordiamo che Inditex controlla: Zara, Bershka, Oysho, Pull&Bear, Stradivarius e Massimo Dutti.

Secondo Alfonso Scarano, analista finanziario indipendente, qualcosa nelle parole di Tute non è esattamente congruo alla realtà.

La domanda è questa: un gruppo come Zara che ha 120 mila dipendenti, 1 milione e mezzo di indotto e migliaia di fornitori, può essere realmente ispezionato?

La situazione nelle fabbriche in Cina non è come descritta da Inditex.

I lavoratori sono schiavizzati e per loro, probabilmente, la vita sarà breve.

Mentre un responsabile spiega che tutti i requisiti di sicurezza sono rispettati, la videocamera nascosta dimostra altro. Il male minore è morire per le esalazioni di soda caustica. Lavorare in

Pulp Fashion, il lati oscuri della moda. Lavoratrici cinesi
Le condizioni di lavoro di alcune lavoratrici cinesi

fabbrica, per queste persone, è una condanna a morte.

Elin Robling, responsabile qualità di H&M assicura che il marchio svedese utilizza un quantitativo sempre minore di solventi chimici al fine di tutelare l’ambiente e preservare la salute dei lavoratori: sara così?

Assolutamente no! Nella fabbrica finita sotto inchiesta dall’occhio vigile di Bellano, i lavoranti non solo sono sprovvisti di ogni presidio di sicurezza ma toccano con le mani nude gli intrugli chimici per valutare la consistenza dei coloranti andando incontro ad un tumore alla vescica.

H&M eco-sostenibile? Non raccontiamoci balle.

PH12. Ovvero un ph dell’acqua altamente alcalino e quindi inquinante. È quello che è stato registrato qualche tempo fa in Cina , in un fiume a ridosso della fabbrica in cui si lavorano i capi H&M.

In pochi istanti una moria di pesci ha fatto temere il peggio ma il danno era già stato compiuto. Il problema, in questo caso, è stato risolto eliminando la prova affinché i cittadini a valle non avvisassero le autorità.

Ma in Cina, le falde acquifere sono inquinate per l’80%, cosa volete che sia un numero in più?

Non solo Inditex: anche VF ha le sue colpe.

Il gruppo americano che controlla la produzione di Lee, The North Face, Kipling, Vans and more non sarebbe immune da questa pratica illecita. Insomma, Il Made in China è dannoso a 360°.

In passato, sei anni addietro, anche brand del lusso italiano come Max Mara si sono serviti della medesima fabbrica per il reperimento delle materie prime, ossia il tessuto. Questo è quanto rivelato dall’indagine di Report sebbene l’azienda confermi il contrario.

Il motivo dell’espatrio? Tingere un tessuto in Italia costerebbe 3 euro al metro mentre in Cina, solo 0,90 centesimi.

Tunisia. Un altro porto dell’onestà clandestina che ruota attorno alla moda.

Si confeziona in Tunisia per abbassare il prezzo. Nomi importanti per una vergogna globale.

L’altra sponda del Mediterraneo cela segreti inconfessabili. Non fosse altro per l’inchiesta generosa di Emanuele Bellano. Oltre al pergamanato di potassio, altamente dannoso per la salute umana, sulle industrie tunisine un velo oscuro aleggia sulla moda. E coinvolte sono anche le grandi firme Made in Italy.

Un esempio fra tutti è Replay. Un jeans effetto used – trattato con pergamanato – in una boutique romana costa ben 239 euro. Ma il prezzo finito per il suo confezionamento è di soli 19 euro.

Lo stipendio di un lavoratore tunisino e di 400-500 talleri che convertito nel nostro conio fanno soli 150-160 euro … al mese.

Insomma, c’è davvero poco da sperare. Qual è il vero valore della sostenibilità se nel dietro le quinte tutto il lato oscuro della moda si nutre della schiavitù? Se dietro le belle parole si nascondono sotterfugi per guadagnare a discapito dell’intero eco-sistema?

Dovremmo riflettere e con disprezzo. Il vero valore, oggi, è solo nell’artigianato. La sostenibilità reca il nome della bottega.

Riflettete!

 

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