The desire for freedom
Fotografia,  Arte

The desire for Freedom. Il trionfo della didascalia

Il trionfo della didascalia

The desire for Freedom

The desire for Freedom. Di fronte, nell’ala nuova di Palazzo Reale una mostra di segno significativamente opposto: di discorsi sull’arte. Una mostra didascalica.

L’ideatrice e curatrice (Monika Flacke, coadiuvata da Henry Meyric Hughes e Ulrike Schmiegelt) ha fatto il giro d’Europa per raccogliere dai musei il centinaio di opere esposte, molte di artisti noti e stranoti. Bisogna ammettere che l’allestimento delle sale, tutte ampie e altissime, è impeccabile: nessuna opera pesta i piedi alla vicina.

Ma le mie lodi, a parte quella dozzina di lavori per cui vale la pena la visita, finiscono qui. Raramente s’è vista un’accozzaglia di oggetti di linguaggio più disparato.

Tutti o quasi necessitano del bel discorsino che i curatori si sono premurati di aggiungere sotto il nome dell’autore per essere in qualche modo avvicinati dal visitatore (quando in molti casi non ne vale proprio la pena).

Per non parlare poi dei grandi tabelloni che vorrebbero raccogliere questi linguaggi in un’unità di pensiero sulla guerra, l’inimicizia dei popoli, il valore terapeutico dell’arte ecc. Anche nel caso di opere tutto sommato scadenti e quindi legate a un’intenzionalità evidente, a un discorso, non ci riescono proprio.

The desire for Freedom

The desire for Freedom: intenzione e risultato corrispondono?

Una delle caratteristiche fondamentali dell’arte è proprio l’impossibilità di essere decodificata dal pensiero verbale o tradotta in un significato sociale, filosofico o politico univoci. Quindi l’idea della mostra, per quanto lodevole per l’intenzione morale, è controproducente.

Perché, priva di cultura visiva, ha coartato i visitatori (per la verità pochissimi: domenica scorsa ero assolutamente solo: venti custodi per un solo pirla!): anche le poche opere che non hanno seguito nessun cliché (parlo per es. dei lavori di Hainz, Schifano, Vedova, M. A. Campano, Opalka, Baj, K. Malich, Mario Merz) sono state distorte a un significato del tutto gratuito.

Una mostra arbitraria

Chi per es. conosce gli igloo di Merz capisce perfettamente che cercare di far rientrare il suo Objet cache toi in un discorso intenzionale di qualsiasi genere è forzare il suo linguaggio a un tema, un’idea filosofica o sociale che non ha niente a che fare con l’opera che lui ci ha consegnato.

Per non parlare di quella di tutti gli altri. Come si fa a chiudere il linguaggio freddissimo e micidiale di un Opalka nelle maglie di un’intenzionalità sociale? Insomma per troncarla lì, si tratta di una mostra totalmente arbitraria, nella scelta degli artisti (cosa c’entri lì dentro per es. il grande quadro di Cucchi lo sanno solo i curatori) e nella forzatura che s’è voluta dare al messaggio delle opere.

Di chi è la responsabilità di The desire for Freedom?

The desire for Freedom è responsabilità dei politici, degli assessori alla cultura; e questo è il classico caso in cui si misura la loro cultura, la cultura di qualcuno che ha una grande responsabilità nei confronti dell’arte.

Non varrebbe proprio la pena parlarne, se non perché ci dà occasione di sottolineare come il linguaggio visivo dal dopoguerra in poi, con la scarsa aderenza alla sua assoluta autonomia da qualsiasi altro, ha prestato il fianco a questo tipo di manipolazioni e proprio le poche opere che ne rimangono immuni stanno lì a dimostrarlo.

Parlo per esempio di quella terribile del grande Boltanski, della leggerezza di quella della Malich, del Fiore di Aurora Reinhard, della grande fotografia di Thomas Ruff .

Perché la mostra The desire for Freedom è significativa?

Ma la mostra è significativa per un’altra e opposta ragione: mette allo scoperto la debolezza di certi artisti molto famosi, come per es. Wolf  Vostel (il cartellone del suo lavoro in mostra è su tutti i muri di Milano), Nam June Paik (il suo Buddha di bronzo con la spilla da bucato sulla nuca in meditazione davanti a un televisore è semplicemente ridicolo: sai l’idea!), Arman (con la sua raccolta di sveglie; ma la recente pessima mostra al PAC sul Nouveau Realism, mal organizzata da chi? – Pierre Restany era già morto da una decina d’anni – ci ha già aperto gli occhi).

The desire for Freedom è specchio della società in cui viviamo

I suoi difetti sono però specchio di quelli di un’epoca e come tali quindi, se ci limitiamo a un discorso descrittivo dello stato di fatto, per molti non saranno affatto gravi. Anzi potrebbero tramutarsi in pregi. Infatti viene in mente l’affermazione  “ Viviamo un’epoca di Settecento volgare”. Un Bazar di tutto e del contrario di tutto (il Salone del Mobile di Milano a cui è accorso tutto il mondo proprio in questi giorni, ne è l’esempio più evidente), un’accozzaglia di oggetti più o meno kitsch, in cui la parola fa da stampella essenziale per un minimo di comunicazione.

E per noi operatori visivi?

Per noi operatori visivi naturalmente la situazione non è consolante e il mio intervento su questa mostra dovrebbe, se potessi contare su un’attenzione più prolungata, essere approfondito alle ragioni per le quali oggi il linguaggio ha abdicato alla sua specificità e alla sua autonomia; forse la Freedom che ci è stata concessa si è ritorta contro di noi: le sirene dell’uso facile dei mezzi di comunicazione ci hanno danneggiato.

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