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I simboli del sacro

Inaugura il 15 settembre, al Broletto di Pavia, la mostra “I simboli del sacro” a cura di Anna Comino

I SIMBOLI DEL SACRO: LA MATERIA E LA FORMA DI DIO

Sono passati più di duemila anni da quella che, convenzionalmente, viene indicata come la nascita di Cristo. Secoli in cui storia, religione, potere si sono intrecciati, combattuti, alleati. Anni di scismi, di divisioni, di iconoclastia, di ostracismo, di cieca chiusura, ma anche di rigoglio intellettuale, di mecenatismo, di sontuosa rappresentazione artistica. Un patrimonio inestimabile ricco di astruse simbologie e di facili “sequenze” narrative, pericolosamente diviso tra destinatari colti, imbevuti di conoscenze letterarie e filosofiche, e un volgo ignorante, in grado soltanto di “leggere” per immagini. Dagli idoli primitivi dei popoli legati all’animismo, alla perfezione plastica degli dei greci, dalle prime rappresentazioni simboliche del cristianesimo, alle ieratiche icone bizantine, e poi rapidamente, correndo verso i nostri giorni, si incontrano le maestose pale d’altare del basso medioevo, e i cicli di affreschi di umanesimo, rinascimento, barocco, neoclassicismo. Oggi.

Cosa sia Dio, o chi sia, è una domanda che resta senza risposta. Che sia l’essere supremo, il Dio di tutti o del singolo individuo, oppure una fantasia della mente umana, può vantare innumerevoli figurazioni a seconda delle epoche e delle latitudini. Nel secolo attuale, l’arte sacra si è trovata ad uno spinoso punto di svolta. Da una parte, a rappresentare la tradizione, ci sono molteplici schiere di artisti che si affidano all’iconografia classica, seguendo un cliché ben rodato nel descrivere scene e personaggi. Dall’altra, l’avvento della non figurazione ha ulteriormente ingarbugliato i giochi ma, al contempo, ha aperto nuovi orizzonti nel tentativo di dare corpo a qualcosa che resta nell’ambito dell’astrazione. Dio trova così forma e materia in volumi e tratti che non descrivono corpi e fattezze, ma sono la proiezione dell’inconscio, dello stato d’animo, di un approccio volutamente concettuale che ha in esasperate metafore la sua ragion d’essere.

O forse la rappresentazione è solo il pretesto per qualcosa d’altro. Mai come in questo caso, l’artista racconta la sua più segreta ed intima idea del divino. E questo scaricare sulla materia la furia dei pensieri, spesso, ha ben poco di religioso. Per qualcuno Dio è semplicemente Dio, per altri è vita, morte, amore, perversione, fede, ossessione, una trasposizione terrena e sanguigna dei più reconditi desideri. E allora perché non far coesistere le due tendenze? Ovviamente una “lotta” senza paragoni, che non riporta né vinti né vincitori, dove la preferenza è accordata solo in base alla propria sensibilità.

A sostegno della figurazione, della rappresentazione canonica, c’è Teodora Rosca. Studiosa romena, ha fatto di una pratica secolare la sua attività di artista e conservatrice. Rifacendosi alle usanze popolari della sua terra, porta avanti la tradizione delle icone su vetro, che hanno in Sibiel, piccolo centro della Transilvania, il cuore vivo della produzione. Questa singolare tecnica ha, nella regione, radici che risalgono alla fine del diciassettesimo secolo, e i segreti della lavorazione si tramandano di generazione in generazione. Teodora Rosca è tra le più accreditate continuatrici di questa antica pratica artistica.

Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1, 9). La serie di icone realizzate per l’occasione riprende i soggetti più amati dalla devozione popolare: vicende della vita dei santi, passi del Vangelo, brani biblici. Un piccolo sunto che spazia dal Vecchio al Nuovo Testamento, con figure nette, dai lineamenti schematici e ben definiti, colori a contrasto, brillanti e preziosi, che sfruttano le caratteristiche del supporto: densi e coprenti a tratti, traslucidi e opalescenti negli incarnati. Episodi grafici e didascalici, prospettive appiattite e scene stratificate l’una sull’altra, accompagnano da tempi immemorabili l’esercizio spirituale del fedele, che ritrova in ogni tessera un piccolo frammento del più grande corpus della letteratura sacra. L’insistita stilizzazione, diretta conseguenza dell’utilizzo di una base in vetro, è dovuta al ribaltamento dei rapporti compositivi: il disegno, eseguito a rovescio in modo speculare, tiene conto della superficie priva di asperità e della lettura inversa al recto. L’immediata riconoscibilità dei soggetti è un esplicito rimando alla consuetudine della “Bibbia illustrata”, ossia la trasmissione orale e per immagini dei testi, altrimenti incomprensibili agli animi digiuni di istruzione e nozioni dottrinali.

In netta contrapposizione le soluzioni degli artisti non figurativi. La citazione della fonte è il pretesto narrativo per plasmare una sequenza temporale in pieno svolgimento attraverso una sospensione d’immagine. Non sempre è chiaramente tracciabile la genesi compositiva (nasce prima l’opera o la scelta del tema?), proprio per l’evidente difficoltà di raccontare senza appigli: è così che prendono consistenza idee dell’episodio, trasposizioni emotive, simbologie nuove e immaginarie che hanno nel ferro, nella cera, nella resina i loro protagonisti.

E il verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Daniela Nenciulescu sceglie l’Annunciazione: il preciso momento in cui l’angelo è a colloquio con la Vergine. Due esili cilindri metallici neri, scavati e sfibrati, si fronteggiano l’un l’altro, uniti nel loro destino dal motore sottostante. Motore nel suo duplice significato di elemento meccanico, di pezzo di ingranaggio, che è poi la cifra stilistica della scultrice romena, e di personificazione della volontà divina che regola e governa gli eventi. Le fuoriuscite dal corpo dell’angelo (chiaramente delle ali) sono il tentativo di mantenere il legame con qualcosa di riconoscibile e di circoscrivere l’azione alla bolla d’aria che contiene le due figure. Il resto è fusione con l’episodio: uno snodo e l’angelo è inginocchiato, un taglio e la Madonna è assorta in preghiera. Tacciono, eppure si sentono le voci entrare nel ferro, dure, spigolose, ordini indiscutibili, da eseguire, eppure avvolte in una morbida luce ultraterrena che li isola dal mondo.

Non leggeste questa Scrittura: «La pietra che rifiutarono i costruttori, questa divenne pietra d’angolo»?” (Mc 12,10). L’onice verde è il nucleo pulsante del lavoro di Daniele Nitti Sotres. La pietra, una spessa “fetta” irregolare, venata e parzialmente lucida, galleggia nel centro nevralgico della scultura. Attraverso di essa passano alcuni elementi strutturali metallici che si congiungono in un punto interno del masso, occultato alla vista. In quell’angusto passaggio si sviluppa il nodo costruttivo che permette all’insieme di reggersi. Il ruolo di cardine-sostegno ricoperto dalla pietra-Cristo è la metafora della pietra d’angolo, la chiave di volta: ossia l’elemento che permette di scaricare il peso e di tenere insieme il tutto. Studiata per una molteplice e variabile messa a terra, nel suo “rotolare” l’opera non perde il significato di centralità. Le barre in ferro a sezione quadrata permettono la canalizzazione del flusso delle forze di spinta e di tensione, che si indirizza alle periferiche legandole saldamente all’insieme e rendendole partecipi del movimento di crescita.

Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io ma come vuoi tu!” (Mt 26, 39b). La notte prima di morire Gesù va a pregare con i suoi discepoli. Si ritrova solo (i suoi compagni dormono) e il suo cervello umano è preda della disperazione. E’ il momento che precede la Passione vera e propria quello rappresentato da Paolo Bonaldi: una sequenza di tavolette di resina in cui le parole si accavallano, urlano e si zittiscono, in cui la volontà divina si mischia al debole sentimento umano. Punte affilate, spinose (gli ostacoli, ma anche i sogni incontrollati) emergono dalle superfici fluide, apparentemente malleabili e invece rigide nel loro contenere e trasmettere un destino già tracciato. Rosso e nero in contrasto e lotta, si combattono come bene e male, e diventano facile trasposizione delle difficoltà della vita e dell’impossibilità di raggiungere i propri desideri senza passione. Passione nella doppia ottica di entusiasmo, motivazione e, più globalmente, di vero e proprio transito di sofferenza verso la salvazione. Ma anche nell’ambivalente ruolo di colpevole e innocente: essere alternativamente Giuda e poi Cristo. Entrambi, comunque, obbligati ad addossarsi le due facce di una stessa croce, con esiti differenti a causa proprio della diversità di posizione sostenuta.

La croce, apparentemente il simbolo più scontato (e per l’immediata riconoscibilità, e per le limitate variazioni strutturali apportabili per non cancellarne la forma), è rielaborata da Albano Morandi nella dimensione piana del foglio e da Claudio Borghi nello spazio plastico della scultura.

Poi lo crocifissero” (Mc 15, 24). Non una, ma due, tre, cento volte. Così Albano Morandi vede la morte di Cristo. E come la liturgia inscena instancabilmente, anno dopo anno, il supplizio, anche l’artista si adegua, apportando però sostanziose variazioni di scenografia. Con il frottage riproduce su carta l’altrettanto simbolica forma della conchiglia, che lascia per contatto una traccia sintetica che sfiora il concetto della Sindone. Spessa, quasi catramosa, quando il colore è più abbondante e pastoso, e via via sempre più essenziale e scheletrica, fino a ridursi ad un sottile tessuto linfatico. Il tutto irrigidito da uno leggero strato di cera. E poi incroci tramati che sembrano tappezzerie, infiorescenze simmetriche, “cieli” rossi, arancioni, azzurri, fino a sconfinare in qualcosa d’altro che è sì croce, ma con rimandi di tutt’altro significato: la molto laica (e neutrale?) croce bianca su campo rosso che, per associazione, il nostro occhio riconosce come bandiera svizzera. Un omaggio ironico alle avanguardie del Novecento, o forse solo una stilizzazione estrema, asciutta, che riconduce l’antico strumento di tortura al semplice incrocio dell’asse delle ascisse con quello delle ordinate.

Ecce lignum crucis, in quo salus mundi pependit(orazione del sacerdote alla cerimonia dell’ostensione della croce del venerdì santo). La scarna croce di legno del Golgota, in Claudio Borghi diventa una storta e martoriata struttura in ferro dorato. Ammaccata, flagellata, raccoglie in sé le sofferenze ultime della Passione. Quasi corpo, ha patito con Cristo, e con lui è caduta, ha arrancato, ha consumato le ultime ore. A tre sole punte, la T ritorta, giunta al termine della Via Crucis, si erge instabile e conserva il ricordo della figura ormai morta che la occupava, con la testa inerme reclinata sul petto che non interrompe più la linea orizzontale dei bracci. L’ansa nell’elemento di appoggio a terra è quasi seduta, sostegno estremo delle ormai vuote spoglie umane. La frattura dei piani, rende singhiozzante la pelle patinata. Cangiante e preziosa, la doratura superficiale sembra l’ultimo sberleffo al figlio di Dio, incoronato re su un luccicante trono di dolore.

Ed ecco che vi fu un terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa” (Mt 28, 2). Daniele Salvalai sintetizza l’attimo immediatamente successivo alla resurrezione. La volontà di Dio si è compiuta e il sepolcro è stato aperto per permettere la fuoriuscita, o meglio la rinascita. Il foro esagonale riprende il modulo espressivo dello scultore e simboleggia il passaggio. Quella stessa fase che in natura è vista come trasformazione (l’abbandono del bozzolo, il compimento del processo evolutivo), la “morte” allo stadio larvale e la “rinascita” come essere adulto, a sviluppo completo, è il parallelo dell’esperienza di Cristo che chiude la sua parentesi terrena per iniziare quella eterna. Il ferro grezzo, rugginoso, che è stato l’umile dimora di un corpo senza vita, è ora abbandonato. Il masso (la spessa chiusura esagonale) rivestito di cera, che ha occluso, protetto e vigilato sulla metamorfosi in corso, è stato spostato. Restano quali muti testimoni di avvenimenti già compiuti: il guscio vuoto di qualcosa che è stato.

Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali troverai rifugio la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza” (Salmi 91, 4). Una veste bianca è il contenitore dell’anima. Questa essenza volatile, impalpabile ed invisibile trova rifugio nella rigida sagoma, ne assume i contorni, si dilata o si contrae seguendo le sue esigenze di tensione verso l’esterno o di fuga nell’interiorità della meditazione. La candida corazza è il limite della vita terrena, il corpo fisico concesso per il passaggio umano nell’esistenza di transizione (il micro-clima del cubo di plexiglas). Oltre, l’assoluto. Regno celeste o abisso infernale, è ciò a cui tende lo spirito, incoraggiato quasi da seducenti note ipnotiche. Le volute spiraliformi sono allora i moti dell’anima oppure tentazioni mascherate? Alina Margulescu Stroie pensa ad una battaglia, forse solo ipotetica, tra ciò che si è, ciò che si vorrebbe essere e ciò si dovrebbe essere. Raramente i tre aspetti coincidono: sarebbe la perfezione, l’esistenza piena a lungo vagheggiata.

Alla fine di questo viaggio tutto interiore attraverso le Scritture, restano solo sensazioni. Quel rapporto sviluppatosi tra singoli, si è trasformato in uno stretto dualismo. L’io a confronto con qualcosa che non sa spiegare: le intenzioni vorrebbero essere di esaltazione mistica, ma sono goffe, impacciate. Allora le mani cercano il sacro e, senza volere, lo mischiano con il profano, con il quotidiano, con la superstizione, con il blasfemo. Solitudine, gioia, quiete, oscurità, silenzio accompagnano la ricerca della chiave: riuscire a portare l’intero universo all’interno del proprio corpo e poi rilasciarlo per dare forma alla materia. La magia seduttiva di un’esistenza superiore trascina verso l’infinito, verso il mistero. Oltre. Forse verso Dio.

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