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Maria Callas: il mito fragile

Maria Callas. Piero Gelli ripercorre la carriera della famosa cantante e l’aura quasi mitologica che l’avvolse. Oggi, tuttavia, a parte le incisioni discografiche, cosa rimane della sua arte?

Come sempre succede, quando il mito si dilata, si epicizza, la figura che il mito rappresenta può anche non corrispondere più, non importa, il simbolo continua a produrre immagini, che, anche se sempre più distanti dalla verità, ne alimentano la leggenda.

In un film di qualche anno fa, Philadelphia, Tom Hanks, che impersona un giovane avvocato gay malato di Aids, commenta in un sorta di mortuaria frenesia di fronte a uno sbigottito Denzel Washington le parole dell’aria La mamma morta, dall’Andrea Chénier. È una scena altamente patetica come la musica.

E la voce è quella di Maria Callas, che a quasi venti anni dalla morte si ritrovava in testa alla classifica delle vendite per un pubblico probabilmente ignaro di qual madre si tratti come di tutte le infelici protagoniste che per anni Lei ha interpretato.

Quasi un omaggio tardivo e riflesso

Quasi un omaggio tardivo e riflesso del cinema alla sua unica performance filmica, che la deluse tanto e dispiacque ai suoi fan: quella Medea di Pasolini, che avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova carriera, ma restò invece un hapax.

Vent’anni di carriera mitopoietica: dai suo debutti italiani, nel 1947, sotto la direzione di Tullio Serafin, all’Arena di Verona con La Gioconda e, poi, alla Fenice di Venezia, con Tristano e Isotta, il primo vero trionfo in Italia, fino alla morte, il 16 settembre 1977, nel suo appartamento parigino di Avenue Georges-Mandel, 36. Sola… perduta… abbandonata, verrebbe di dire parafrasando una delle sue eroine: sola sì, dopo la morte dell’unico uomo da lei amato, Onassis; perduta forse, per rumori di una cronaca mondana un tempo sempre accesi, e abbandonata certamente, da molti anni da quell’organo mirabile che fu la sua voce e che, insieme a una intelligenza artistica e a un intuito straordinari crearono il fenomeno Callas.

Che ancor oggi all’ascolto non finisce di stupire e commuovere. Ma tutto durò purtroppo pochi anni, davvero pochi se si pensa che, raggiunta la quarantina, la sua voce è in netto declino, è già un ricordo di quello che poche stagioni prima era stata. Di fronte alla longevità di altre colleghe, dalla Magda Olivero alla Elisabeth Schwarzkopf, dalla Mirella Freni alla Renata Scotto meraviglia quel declino alle soglie della maturità.

Le cause vennero attribuite di volta

Le cause vennero attribuite di volta in volta alla dieta che si era imposta o alle continue e nottambule frequentazione di panfili, ville nobiliari, chiacchierate con l’orrida Elsa Maxwell e ricevimenti da Ranieri e Grace. Dappertutto, meno che al pianoforte o in teatro.

Probabilmente non è vero: Renata Tebaldi, deuteragonista e rivale presunta o conclamata, di vita integerrima e salubre, ha avuto una carriera più lunga di poco. Le prime avvisaglie di una crisi di voce, dopo i trionfi scaligeri, si fanno risalire alla Norma, che avrebbe dovuto inaugurare la stagione romana del 1958, alla presenza del presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi.

L’episodio è noto e raccontatissimo. Maria Callas, non in forma e bersagliata da grida ostili, dopo il primo atto si rifiutò di cantare. Lo spettacolo fu interrotto, il direttore artistico licenziato e lo scandalo enorme. Ne parlavano tutti, perfino chi non distingueva un’aria di Verdi da un quartetto dei Cetra. Era l’argomento tranviario e parrucchiero per eccellenza. E per fortuna che la televisione, ai primordi, ancora non incombeva.

Nacquero le leggende: mariti o mogli tornate a casa in anticipo sul previsto con relative conseguenze. E jettature: la soprano che sostituì la Callas per le recite successive perse subito dopo la voce, per sempre: si trattava della bravissima e simpatica Anita Cerquetti, che ha continuato per anni a ricordare quei momenti.

Al di là dell’ episodio in se stesso, il fatto segna uno iato nella vita della cantante: l’irrompere di una notorietà sempre più avulsa dal suo contesto artistico. Altrove è sempre successo; nel mondo del cinema per esempio. Ma non in quello elitario della lirica, per lo meno fino all’erompere del “fenomeno” Pavarotti, in realtà di esportazione americana.

Fino allora le cronache che si occupavano

Fino allora le cronache che si occupavano della soprano dipendevano dall’evento che le aveva stimolate. Lei ha sempre suscitato entusiasmo ed odio, tra melomani e critici, in un’Italia ancora povera ma bella, sempre bisognosa di eroi eponimi a confronto, Callas/Tebaldi come Bartali/Coppi o Tajoli/Villa.

Ammiratori ed estimatori crebbero dopo e prolificarono, come i presenti alla prima de La Traviata di Visconti. Come se La Scala fosse diventata più capiente dell’Arena di Verona – racconta Hector Bianciotti ne Il passo lento dell’amore – tutti erano lì nei palchi o in galleria ad applaudire. Ma ora che quel 1955 si allontana nel tempo e tradisce l’età, le presenze si sono assai diradate.

Ma Arbasino c’era nel mitico loggione dell’epoca, quando Maria reinventava Norma o Lucia, creava Medea o la , ma soprattutto faceva rivivere un melodramma obliato e sepolto di stupefacente drammaticità.

E nascevano, il Pirata, Anna Bolena, Poliuto, e un’eredità di riscoperte che altre sapranno raccogliere: da Leyla Gencer a Montserrat Caballé, a Joan Sutherland a suo modo. E rileggere le pagine di Arbasino, da Il ragazzo perduto a Fratelli d’Italia, che narrativamente quel clima ha descritto con passione e ironia serve più a capire che non le astiose critiche di Beniamino Dal Fabbro o di un Guido Pannain, se non quelle entusiaste con judicio di Eugenio Montale.

A cui non garbava, di Maria Callas l’aggettazione espressionistica, il suo porsi sempre eccentrico in uno spettacolo come quello dell’opera, retto da delicati equilibri. Inoltre l’accusava di aver trasformato ogni rappresentazione lirica in rito mondano, ed estendeva l’accusa anche a Karajan.

E se questo è vero, la prima a soffrirne era lei, consapevole che quel pubblico di fanatici mondani che la seguiva dovunque non aspettavano altro che la nota incrinata, il gesto di rabbia, quando non l’ennesimo rinvio con conseguenti infuriate dichiarazioni di sovrintendenti e direttori.

Deve essere stato terribile per Lei accorgersi

 

Deve essere stato terribile per Lei accorgersi che la sua popolarità cresceva, mentre diminuivano le sue capacità di sfida: il controllo della voce, dei suoi registri, appariva sempre più difficile. Intuiva che sarebbe dovuta scendere a patti, ridimensionare i ruoli, magari dopo un passaggio, del resto tentato a un repertorio contraltistico. Grande, indimenticabile Maria Callas, ne La Tosca di Zeffirelli all’opera di Parigi, con un giovane focoso Pretre, in quel lontano febbraio del ‘65.

Il pubblico in delirio, lei ancora per sempre Divina. Ma nel grido “Io quella lama gli piantai nel cor” a uno strillo selvaggio seguirono delle note più basse che non in Sparafucile. Ne i devoti accorsi dall’Italia, in chi l’aveva ascoltata nel decennio precedente, grassa e poi magra a Verona, a Firenze a Milano, la sensazione fu netta e dolorosa. E infatti quello stesso anno, dopo un’infelice Norma, Maria chiuse con il teatro: incise, fece qualche concerto, prima di tentare altre strade: il cinema, l’insegnamento, la regia.

L’avventura con Pasolini suscitò una vasta eco, sulla stampa. Ma i due non sembravano fatti per intendersi e, infatti, l’incontro non giovò né all’uno né all’altra.

La verità dello scrittore non coincideva con quella di lei, rivestita di identità trafugate, sulla scena. Nella vita Maria sapeva essere scandalosamente banale. E solo in teatro diventava Medea, con l’aiuto del suo strumento fatale, la voce, e l’apporto di un’innaturalità ieratica come carpita al cinema muto dell’infanzia ateniese.

La Medea filmica fu quindi un mezzo fiasco, e lei si allontanò da quell’esperienza e dal suo complicato mentore, anche se, alla morte di lui, scrisse alla nipote Graziella una lettera di grande umanità e intelligenza.

Il mito sdipana il suo filo leggendario di quegli anni folgoranti e irrepetibili di Maria Callas mentre l’agiografia, per fortuna, si disperde come le sue ceneri nel mare Egeo.

Quel che resta oggi, a trent’anni dalla morte, oltre ai ricordi, consente l’immortalità non del cenotafio ma del documento: un’ampia discografia perfettibile conserva l’artificio di quella straordinaria versatilità vocale e intelligenza artistica, permette la riflessione e autorizza la critica. Ma anche la verifica di un sortilegio, di un prodigio.

Verifica che non è avvenuta in questi giorni di celebrazione anniversaria: quello che si è visto in televisione e si è letto sui giornali sono in massima parte retoriche banalità, i libri usciti su di lei per l’occasione rigesti superficiali e inutili.

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