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Rof, bentornato Ciro

Malgrado l’opera giovanile di Rossini non costituisca certo uno dei suoi lavori migliori, ci hanno pensato il trascinante contralto Ewa Podles e la regia di Davide Livermore a renderla indimenticabile

Al Rof, il Festival Rossiniano di Pesaro, quest’anno una vera rarità, Ciro in Babilonia, la sua prima opera seria, che era praticamente scomparsa da ogni teatro, dopo un’effimera e contrastata vita ottocentesca. E, ascoltandola, si capisce il perché: recitativi infiniti, arie e duetti in gran parte scritte con quell’abilità artigianale che qui si fa monotono mestiere, parte della musica ripresa da altre opere, come la sinfonia, ricavata da L’inganno felice. Ma a questo siamo avvezzi, soprattutto nel Rossini giovane. Quel che non regge, in Ciro, è la sua verità teatrale, così poco sostanziale qui e credibile, soprattutto se la si confronta all’altra azione tragica biblica, al meraviglioso Mosè in Egitto, che segue di pochi anni: se il primo infatti è del 1812, l’altro appare a Napoli nel 1818 (1819 se si considera la stupenda preghiera “Dal tuo stellato soglio”): anni decisivi nella formazione e nelle sperimentazioni del giovane compositore (che, ricordo, quando compone il Ciro è appena ventenne), anni densi di capolavori.

Si parla, per quest’opera, di oratorio sacro; in realtà, nella storia scombinatissima, ricavata con molta libertà dal Libro di Daniele V dell’Antico Testamento, nonché da Erodoto e da altri, il librettista, tale Francesco Aventi, innesta un equivoco d’amore, che coinvolge un trio classico, Ciro, la moglie amatissima Amira e Baldassare, che l’ha imprigionata col figlio e che vorrebbe impalmarla, pure lui. Ma non serve raccontare la trama se non per osservare che quasi cancella l’intenzione oratoriale, come non succede invece nel già citato Mosè; del resto Rossini, ben lontano da ogni tensione mistica e anche sentimentale, quando il profeta Daniello (alias Daniele), scatena la sua maledizione su Baldassare e il suo esercito, con tanto di fulmini e notte cupa in scena, l’orchestra la sottolinea con uno spiritato ritmato crescendo. Non mancano comunque nell’opera aspetti e momenti sorprendenti, come il quartetto che chiude il primo atto, l’aria di Amira con un accompagnamento curiosissimo di violino solo, l’aria di Arbace accompagnata da un elaborato corno e via di seguito, tutte prove di libertà espressiva di spericolata sperimentazione, che comunque non l’avrebbero salvato dalla noia, senza l’eccezionalità delle voci.

L’eccezione qui era presente nella stupefacente protagonista, il contralto Ewa Podles (nella foto in basso a destra), davvero di rara avvenenza, piccola e tozza come un uovo, in compenso claudicante, un faccione simpatico ampliato da barbetta babilonica, con una voce di tale potenza e duttilità da infiammare gli ascoltatori, da rendere credibile quel suo incredibile patire, un’estensione nelle noti gravi da non credere. Ecco smentito quell’articolo sul Corriere della sera che alcuni mesi fa asseriva che oggi una Montserrat Caballè e un Pavarotti stenterebbero a recitare, perché il pubblico richiede anche un fisico adeguato. Nell’opera lirica la credibilità si realizza nella passione delle voci, al fisico sopperisce la fantasia degli spettatori.

Se il Ciro all’ascolto può avere anche annoiato, nessun filo di noia nel divertentissimo e trascinante spettacolo allestito dal regista Davide Livermore aiutato dai costumi bellissimi Gianluca Falaschi e dalle scene di Nicolas Bovey. Livermore ha immaginato l’opera come un colossal film muto, tipo Cabiria o Ben Hur, una cartapesta al cubo, imitando perfino una pellicola ma vista in un cinema di terza visione, quindi che si sgrana,si rompe, balla, con gli interpreti che si muovono con i gesti enfatici e caricaturali degli attori del muto, occhi sgranati, scatti turettiani, mani al petto, insomma tipo Francesca Bertini ed altri, mentre ogni tanto una didascalia spiegava l’azione. Inoltre in scena, con tanto di sedie, una platea di spettatori inizi secolo, che commenta, si intrufola, quasi prende parte, e fa parte del coro. Insomma tre ore di grande godimento.

Anche perché, all’eccezionalità del contralto Podles (vorremmo risentire presto questa dotatissima polacca), facevano degna corona tutti gli altri interpreti, dal bravissimo Baldassare, ovvero Michael Spyres, all’intonatissima Carmen Romeu nel ruolo della contesa Argena, allo spiritato e buffo Daniello di Raffaele Costantini. Unica nota in declino, la direzione di Will Crutchfield: non ce ne siamo neppure tanto accorti, presi dalle voci e dalle scene, ma era davvero modesta.

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