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Rof, Matilde infinita, gioia del canto

Un ottimo cast vocale, in cui spiccava l’ugola di Juan Diego Flórez, ha appagato il pubblico del Rossini Opera festival, complice la regia di Mario Martone e la direzione di Michele Mariotti

Bene ha fatto il festival di Rossini 2012 ha riproporre, dopo la novità di Ciro in Babilonia, l’opera semiseria Matilde di Shabran, già presentata nel 2004, soprattutto avendo ancora a disposizione come interprete principale un tenore del calibro di Juan Diego Flórez, accompagnato da un cast notevolissimo, da una regìa abile e ingegnosa e da un direttore capace come Michele Mariotti.

Lunga, lunghissima, come fosse un dramma wagneriano o quasi, questa elaborata Matilde di Shabran, a tal punto che  per la prima volta, in questo festival, ho visto il pubblico di prostatici spettatori scappare via, come avessero avvertito puzzo di brucio e senza neppure applaudire gli attori al proscenio. Data a Roma nel 1821, poi approdata a Napoli, nello stesso anno, al teatro del Fondo, con molti cambiamenti, tra cui, importantissimo, il ruolo del poeta Isidoro, riscritto completamente in dialetto napoletano, Matilde di Shabran è l’ultima opera semiseria del compositore. Tra la versione romana, che era quella che per anni veniva comunemente rappresentata, e la versione napoletana, il Rof ha scelto giustamente quest’ultima, come più originale e nuova, non fosse che per quel divertente scalcinato filosofo dell’arte d’arrangiarsi dell’Isidoro suddetto: una vera manna, anche linguistica.

Lunga, dicevo, e così la doveva pensare anche Stendhal, che ne scrisse: “Libretto esecrabile, ma bella musica”. Stendhal comunque riportava un verdetto generale, che era anche il suo, ma che si riferiva all’edizione romana. Quella napoletana, accentuando soprattutto nel lunghissimo primo atto la parte comica, con la massiccia intrusione di questo spaccone di poetastro napoletano, una delle infinite varianti della maschera di Pulcinella, finiva col mettere in secondo piano tutta la parte drammatica, quasi interamente affidata alla figura di Edoardo, languente in catene.

Perché comico, anzi comicissimo è anche il protagonista, Corradino, una sorta di piccoso e atrobiliare Don Chisciotte, che odia il sesso femminile e sogna le battaglie; destinato, come è ovvio, a finire preda delle trappole imbastite dalla bellissima Matilde. Nel secondo atto, l’impostazione buffa  si complica, un inganno e un finto suicidio tentano di spostare il clima verso il dramma, senza una vera necessità teatrale (come è invece ne La gazza ladra), e solo la bellezza dei concertati, dei duetti, della musica e la loro totale libertà semantica incantano l’ascoltatore come trascinato in una sorte di ipnotica suggestione, per il susseguirsi dei numeri d’insieme, l’invenzioni tematiche, le sorprese sperimentali, che mettono a dura prova la pur labilissima traccia di veridicità della vicenda. Che importa, noi ci lasciamo andare al gioco speculare di voci e orchestra, la loro felice complementarità e ascoltiamo l’autore come fosse oggi  un grande sinfonista con apporto di voci.
Comunque la trama esiste, tra sapori di poema ariostesco e colori donchisciotteschi, dopo le tante mani cui ha attinto il pur bravo Giacomo Ferretti.

In un castello di Spagna vive un trucibaldo giovane nobile, Ciro, dall’animo cattivissimo e guerriero: la sua ferocia è tale che due lapidi stanno all’ingresso della sua residenza: “A chi entra non chiamato / sarà il cranio fracassato” recita la prima; e la seconda: “Chi turbar osa la quiete / qui morrà di fame e sete”. Ed è quello che è successo al giovane Edoardo (la bravissima Anna Goryachova), in catene per lesa maestà: a lei/lui Rossini affida le uniche arie patetiche dell’opera. Naturalmente al castello arriverà ignaro lo scalcinato poeta tuttofare napoletano. Nel ruolo di Corradino, il terribile, Juan Diego Flórez, il quale, oltre che bravissimo come sempre, qui è anche un consumatissimo attore comico, soprattutto quando la sua ferocia si scontra con l’arrivo non previsto di Matilde di Shabran, bellissima in un bellissimo abito rosso, furba come Rosina, tutta mossette e coquetterie, e intrepida. Corradino cade subito nella trappola. Ma c’è una rivale: la gelosissima Contessa d’Arco, promessa sposa al feroce guerriero, bel caso si ravvedesse.

Mario Martone ha creato da par suo una regia congenialissima, aiutato da una scena mobile centrata sull’intreccio di due scale a chiocciola (ideate da Sergio Tramonti). Bisogna inoltre riconoscere la capacità di Martone di far recitare gli attori come non riesce a nessun altro regista: e con Isidoro si sentiva in casa sua. E qui inoltre gli attori e cantanti c’erano; Juan Diego Flórez con la aria d’apertura ha trascinato il pubblico in un frenetico infinito applauso con tanto di battito di piedi; ma chi ha raccolto da ultimo, con la sua aria di chiusura, il tripudio degli spettatori (meno i prostatici in fuga) è stata Olga Peretyatko nel ruolo del titolo: acuti meravigliosi, coloriture impeccabili, movenze perfette e, cosa che comunque non guasta, fisico slanciato e bellissimo. Straordinaria anche la prestazione della già citata Anna Goryachova nel ruolo di Edoardo, vivace e spiritoso e bravo attore Paolo Bordogna come Isidoro. E così tutti gli altri: Nicola Alaimo come Aliprando; Simon Orfila come Ginardo, Chiara Chialli nel suo ingrato ruolo. E infine un applauso convintissimo al maestro Michele Mariotti, non solo per come ha vitalizzato l’orchestra ma per la capacità di intonarla con la vocalità degli interpreti, con equilibrio stabile frutto di grande sapienza.

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