Arte

Il grande Edward Hopper torna a Roma

Edward Hopper, amatissimo dal grande pubblico, icona dell’arte americana del XX Secolo, torna a Roma, al Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, fino al 12 febbraio 2017

 

Edward Hopper: il testimone silenzioso

Una vita intera a raccontarci, meglio di qualunque regista e scrittore, gli incanti e gli uragani degli Stati Uniti a cavallo tra gli anni Quaranta e Sessanta. In mostra al Complesso del Vittoriano di Roma

Edward Hopper lavorava in silenzio. Scriveva poco e parlava ancora meno. In compenso dipingeva tantissimo. E nei quadri raccontava, come nell’inquadratura di un film appassionante, del mondo e della vita, dei sogni e delle ingenuità della sua America bambina. Pochi attori, persi in sterminate scenografie montate con i paesaggi polverosi del Texas e la terra bruciata del Colorado, le villette in legno bianco coi tetti spioventi e le pompe di benzina del Massachussets, i motel sperduti nella prateria e le insegne dei bar fumosi di New York City.

Edward Hopper fa quadri che, attraverso il colore, passano emozioni e scavano in profondità nel cuore, quadri “calmi, silenti, stoici, luminosi, classici”, come li ha definiti il due volte Premio Pulitzer John Updike in un saggio del 1995.

In Hopper c’è l’espressionismo di Munch e il surrealismo di Magritte, l’inchiostro minimalista di John Cheever e la musica avvolgente di Chet Baker. Se nel 1956 il “Time” gli dedica la copertina titolando: “il testimone silenzioso dell’America”, oggi si parla di Hopper come di un mostro sacro, di un pittore di culto tra i più quotati e già si fregia del titolo di mostra-evento quella appena inaugurata al Complesso del Vittoriano di Roma, portando in  dote dal Whitney Museum of American Art di New York una sessantina di opere delle tremila ereditate dal Museo nel 1968, alla morte di Josephine Verstille Nivison.

L’amata moglie Jo, la musa-vestale sposata da Hopper nel 1924, entrambi quarantenni, la modella del cuore, l’unica, dipinta in cento quadri, nuda, vestita, bionda, bruna, in posa nella casa studio di Washington Square, al Greenwich Village o nel cottage di Truro a Cape Cod. Presente, “in absentia”, anche quando Hopper, magari dopo una dei tanti furibondi litigi che costellarono la loro unione, dimenticava volutamente di inserirla nel quadro.

Nato il 22 luglio del 1882 a Nyack, un paese di poche anime infilato tra il fiume Hudson e i grattacieli di New York, Hopper trascorre una giovinezza tranquilla. Famiglia benestante, un avviato negozio di tessuti, casetta linda e la messa alla domenica, la gita al fiume e un bel sogno che mamma e papà, fortunatamente, condividono: il disegno. Edward lo sente, da grande farà il pittore. Dipinge quello che vede: i paesaggi tipici della Frontiera, i cavalli e le mandrie, il fiume e i campi di di grano.

Quando parte per Parigi, nel 1906, ha già tutto quello che gli serve. Conoscere gli impressionisti sarà soltanto l’occasione di un ripensamento sulla luce. Hopper non copia, guarda, assorbe e rielabora, di se stesso dirà, più tardi: “Sono l’unica persona che mi ha influenzato”. Prende casa in rue de Lille, ma non fa la bohème. Non beve assenzio nei locali di Montmartre, preferisce passeggiare per le strade e le campagne amate da Manet e Sisley, sostare all’ippodromo e ripensare ai cavalli muscolosi di Degas.

E’, in maniera viscerale, “un americano a Parigi”. Quando ci torna la seconda volta, nel 1910, sarà l’ultima. L’Europa è piccola per Hopper, in realtà non vede l’ora di mettersi al volante della sua Buick verde e bianca e puntare verso gli spazi sconfinati della bianca America. S’immagina sulla spiaggia di Truro, con o senza Jo, il taccuino dei bozzetti e la fedele Conté Crayon, la sua matita preferita, perfetta per sfumare, ombreggiare, degradare, assottigliare, rendere l’effetto abbagliante della luce oceanica. Dipingere il silenzio, appunto. Riguardo al suo approccio con la realtà: “Non dipingo quello che vedo, ma quello che provo”, diceva.

Edward Hopper, Roma, Complesso del Vittoriano, fino al 12 febbraio

 

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