Archivio

Quel che resta di Kantor

Un convegno ha ricordato a Cracovia il recente ventennale della scomparsa dell’artista polacco. In una città moderna e vitale ma in via di rapida omologazione, cosa resta della sua lezione e quali sensazioni comunicano le sue memorie, amorevolmente custodite nella Cricoteka?

Torno a Cracovia vent’anni dopo la morte di Kantor. Torno a Cracovia vent’anni dopo quell’8 dicembre in cui uno dei sommi geni del teatro del Novecento se ne andava stroncato da un infarto, alla vigilia della prova generale del suo ultimo spettacolo, Oggi è il mio compleanno. Ritrovo un luogo profondamente cambiato, nel bene e nel male: molti edifici sono stati ripuliti, restaurati, e la città sembra più bella e luminosa. Ma sono anche apparse le boutique di moda italiana, il che è un brutto segno, l’avvisaglia di un’incombente omologazione. Le strade, un tempo un po’ deserte, sono piene di gente, e questo mette allegria, ma spazza via quello struggente clima sospeso che si rifletteva nel teatro kantoriano.

La Cricoteka, l’archivio di scritti, fotografie, disegni, documenti relativi al lavoro di Kantor – da lui fermamente voluto e creato, e divenuto ora la roccaforte delle sue memorie – ha ricordato nei giorni scorsi il maestro con un convegno e varie altre iniziative, mostre, proiezioni, una performance stradale di Jan Książek e dei gemelli Janicki, una serie di incontri. Dziś / Today Tadeusz Kantor si intitolava questo ciclo di riflessioni. Chi è oggi Tadeusz Kantor per i suoi attori, per i suoi appassionati spettatori di una volta, per il pubblico più giovane, che non ha potuto seguirne direttamente il folgorante percorso? Cosa resta di Kantor nel teatro che si fa attualmente? Esiste un metodo, una serie di procedimenti che si possano trasmettere alle nuove generazioni?

Nelle varie fasi del convegno – tre giorni di interventi fitti fitti, dal mattino presto alla sera inoltrata – questo tema è tornato a riaffiorare di continuo e non accademicamente, ma come impulso vivo a far sì che l’opera di un artista dall’estro incomparabile possa davvero sopravvivere nella prassi scenica di ogni giorno. Ma Kantor, coi suoi audaci intrecci fra teatro e arti visive, con le sue variegate esperienze avanguardistiche, col suo posto particolare nella storia del Novecento – di cui ha tracciato un incomparabile affresco metaforico – non può essere imitato o riprodotto, richiede altri approcci, altri spazi di invenzione. Questo aspetto emergeva dalle argomentazioni di molti relatori, questo aspetto è affiorato anche dal vivace dibattito-confronto che i suoi attori polacchi e italiani hanno avuto con un folto stuolo di studenti e osservatori, in quel luogo dell’anima che è la galleria Krzystofory, la vecchia cave, ritrovo di pittori e intellettuali, in cui è nata ed è stata rappresentata per la prima volta La classe morta.

Noi, gli spettatori e gli attori, ci siamo ritrovati più vecchi di vent’anni. Su molti di noi il tempo ha lasciato le sue tracce. Uno di loro, uno dei più importanti, non l’avevo praticamente riconosciuto. E all’improvviso ho avvertito – chissà se solo io – la strana sensazione di un’inattesa identificazione coi vegliardi del suo più celebre spettacolo. Allora li guardavamo dall’esterno, in una condizione che ancora ci consentiva un certo rassicurante distacco. Adesso quei vegliardi che tentano invano di sottrarsi alla morte tornando al passato potremmo essere noi. Siamo noi che cerchiamo di ripetere le parole e i gesti di una volta, senza accorgerci che non siamo più gli stessi. Anche questo è un modo per riaccostarsi a Kantor, per sentire di nuovo vicino il suo teatro.

Alla Classe morta rimanda, con un’immediatezza persino ingenua, il monumento funebre che Kantor aveva disegnato per la madre, e sotto al quale lui stesso è stato a sua volta sepolto. È una riproduzione in bronzo di uno di quegli inconfondibili banchi scolastici, su cui è seduta la statua – pure in bronzo – di un bambino, accanto al quale è appoggiata una croce. Fra le tombe coperte di neve, spicca ovviamente da lontano. Il banco, il simulacro dell’infanzia, la croce: c’è già tutto il teatro di Kantor. E forse, in qualche modo, quel sepolcro è davvero un momento di teatro conficcato nel gelo dell’inverno di Cracovia: possiamo dire, senza cadere nella retorica, che è una sfida del teatro nei confronti della morte?

Natalia Zarzecka, la giovane direttrice della Cricoteka, si è prodigata con infinita cura per dare all’organizzazione un’impronta di efficienza cosmopolita. Tutti gli ospiti hanno trovato nelle loro camere una cartelletta fornita di mappe della città, biglietti dei tram, indicazioni di ristoranti convenzionati. E poi il catering, i rinfreschi. Tutto perfetto, tutto impeccabile: ma mi è quasi venuta nostalgia di un’altra Polonia, più sghemba, più sconnessa. Mi è venuta nostalgia dei grandi thermos di caffè che non mancavano mai durante le prove di Kantor. Eppure forse, sotto la superficie globalizzata, quella Polonia esiste ancora: la si coglie in certe botteghine polverose, in certe inservienti dell’hotel o dei musei, dagli atteggiamenti insieme dimessi e autoritari.

Una sera, dopo i lavori del convegno, è stato proiettato un vecchio film della televisione tedesca che riprendeva – credo intorno alla metà degli anni Sessanta – un happening tratto dallo spettacolo Nel piccolo maniero, e altre azioni di creazione artistica provocatorie e fuori dai canoni. Sarà stata l’aria dell’epoca, sarà che alla distanza certi tracciati sembrano convergere: ma è sorprendente come questo Kantor in bianco e nero che riempiva di cerotti la bocca e la faccia di un attore per non lasciarlo recitare, e stizzosamente gli impediva anche di scrivere le sue battute sul pavimento, ricordi alla lontana – ma forse neanche troppo – degli atteggiamenti del Carmelo Bene di allora. Correnti avanguardistiche che attraversano le tendenze e i movimenti. E ciò risulta inspiegabilmente commovente.

In queste giornate, però, più delle analisi critiche contava qualcosa che arrivava sottotraccia, e che ti investiva con una forza emotiva particolare. Kantor è morto, la sua incrollabile creatività è ormai da tempo consegnata alla storia. Ma Kantor, da queste parti, per altri aspetti sembra ancora vivissimo, probabilmente non è mai stato presente come ora. La sua figura, in questi due decenni, è cresciuta a dismisura, ha ormai acquisito connotati mitici. È come se una parte della cultura polacca, al di là dell’occasione celebrativa, sentisse il bisogno di riflettere sulla sua opera come un mezzo per risalire alle proprie radici: e lui, di quelle radici, per molti aspetti è stato la voce e il testimone più emblematico.

Persino a Wroclaw, all’Istituto Grotowski, hanno voluto organizzare un incontro per ricordarlo: Kantor, da vivo, non ha mai potuto sopportare Grotowski: fingeva di non sapere chi fosse, cacciava i giornalisti che gli pronunciavano il suo nome. Lo accusava, a torto o a ragione, di essere stato piuttosto acquiescente al regime, per averne l’autorizzazione a mostrare prima il suo lavoro all’estero. Ora, dopo tanti anni, i fedelissimi dell’uno e dell’altro hanno siglato questo embrione di riavvicinamento postumo per interposta persona. Forse è il segnale che è arrivato il momento di cogliere più le affinità che le differenze, nel percorso dei due grandi polacchi della seconda metà del ventesimo secolo.

Questa consacrazione, questa sorta di ascesa a un empireo super partes si coglieva nella partecipazione raccolta, commossa con cui i visitatori entravano nella sua camera da letto, ormai divenuta una stanza-museo, col libro che stava leggendo a poche ore dalla fine ancora aperto sul comodino, e il foglio coi numeri telefonici d’emergenza appeso accanto al letto. Era lì a chiacchierare con noi, appena ieri, e ora il suo spazio intimo, privato è già divenuto un mausoleo, meta di uno strano pellegrinaggio artistico-culturale che un po’ mi sorprende. E mi sembra quasi inverosimile che di queste intoccabili reliquie faccia parte l’ex voto di latta con la sagoma di un soldatino della Prima Guerra Mondiale che gli avevo regalato io, comprandolo in un negozietto che ora non c’è più, dietro a piazza Cordusio, a Milano.

Quanto il mito kantoriano sia cresciuto lo si vede ancor più nella suggestiva mostra dei suoi oggetti di scena amorevolmente allestita nei sotterranei della Cricoteka. Quando la gente arriva nella sala dove sono stati rimontati i veri banchi della Classe morta, con sopra i relativi bambini-manichini, e a fianco il manichino del bidello, sembra trattenere il fiato, come davanti alla Cappella Sistina. In un silenzio innaturale si sente solo lo scatto di decine di flash: anche avendo visto lo spettacolo chissà quante volte, non si resiste alla tentazione di fare una foto-ricordo, come se si fosse di fronte a qualcosa di unico e infinitamente possente e infinitamente misterioso, a un simbolo, all’essenza stessa del Novecento. Forse a qualcuno viene persino voglia di pregare.

Riparto sotto una fitta nevicata, con la convinzione di aver trovato molto più di quanto ero venuto a cercare.

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