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Smascherato a Bologna lo sfruttamento dei lavoratori nel Made in Italy

Lo sfruttamento dei lavoratori nell’ambito del fashion è davvero una realtà così lontana dall’Italia e dall’industria del Made in Italy? Le ultime news sullo scandalo di Bologna non fanno che affermare l’esatto opposto.

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Sfruttamento nel Made in Italy, cos’è successo a Bologna?

Lo scandalo dello sfruttamento nel Made in Italy ha avuto luogo a Bologna, quando la Guardia di Finanza della città ha intercettato, a seguito di accurate indagini, una fitta rete di contatti tra alcune aziende manifatturiere e alcune società molto importanti nel settore del Made in Italy.

A capo di ben cinque aziende manifatturiere era Yi Chen, anche conosciuta con il nome di “Sabrina”, un’imprenditrice trentaduenne di origini cinesi, ma nata a Bologna. È stato proprio con l’arresto della donna che ha avuto inizio lo scandalo, portando consapevolezza sulla realtà illegale che si celava dietro le sue attività in collaborazione con alcuni marchi come Marella Srl, Dixie Srl, Novantanove Srl, Betty Blue Spa di Elisabetta Franchi, Tenax.it Srl, Simi Srl, B&G Srl, P&C Srl e Imperial, il brand bolognese, che si dichiara “fast fashion a km zero“.

“Il gruppo Imperial offre un prodotto Made in Italy, ‘a chilometro zero’, nel senso che tutta la produzione avviene entro i 100 km. dal quartier generale dell’azienda.”

Certo, innegabile il fatto che la produzione dei capi avvenisse effettivamente a km zero, ma a quale prezzo?

Ciò che è emerso dalle indagini è stato a dir poco vergognoso: sembrerebbe che i lavoratori fossero costretti a vivere in condizioni indecenti nello stesso edificio in cui venivano prodotti i capi, lavorando con turni massacranti di 14 ore al giorno, con una misera paga di appena 80 euro giornalieri, scalando anche le spese che dovevano sostenere per alloggiare lì. In poche parole, il guadagno dei lavoratori non superava i 6 euro all’ora.

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Inoltre, le strutture che hanno ospitato per un lungo periodo questi orrori sono diverse, rispettivamente presso Bentivoglio, Granarolo e Rovigo, dove i dipendenti dovevano vivere insieme alle loro famiglie, compresi i figli, in condizioni igienico-sanitarie infime, in aggiunta all’evidente problema del sovraffollamento.

Insomma, una realtà da brividi a pochi passi da casa nostra, e il tutto con l’aggravante che ad avvalersi di queste attività basate su uno sfruttamento indecente della manodopera fossero proprio dei marchi importanti e molto noti in Italia e non solo, i quali sono soliti rivendere i prodotti a prezzi medio-alti sul mercato, traendone perciò un alto profitto alle spalle dei lavoratori abusati e delle loro famiglie.

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Per quanto riguarda Marella e Betty Blue Spa di Elisabetta Franchi, sembrerebbe che non ci siano ancora state prove sufficienti per confermare che le due manager fossero a conoscenza della realtà che si celava dietro la manodopera, mentre per quanto riguarda il brand bolognese Imperial, sembrerebbe che non ci siano dubbi riguardo ai due manager di Imperial, ai quali è stata imposta l’interdizione, secondo l’art. 30 del Codice Penale.

Anche Domenico Truppa, GIP del Tribunale di Bologna, sostiene che i manager di Imperial fossero consapevoli delle condizioni dei lavoratori. È stato provato da alcune telecamere che il 28 Marzo 2023 uno dei due manager sia stato avvistato mentre entrava nel capannone di Granarolo, rimanendoci per 52 minuti. Impossibile, dunque, che in quasi in un’ora di permanenza all’interno dell’ambiente lavorativo egli non si sia reso conto delle tremende condizioni in cui si trovavano i lavoratori.

“È agevole desumere che gli indagati non solo erano a conoscenza delle dinamiche delle aziende cinesi, ma anche delle condizioni a cui soggiacevano i lavoratori.”

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Secondo quanto rilasciato da Yi Chen dopo l’arresto, i prezzi bassissimi sarebbero stati proprio una richiesta dei manager di Imperial, i quali pretendevano che di acquistare i capi a “prezzi stracciati”, ma su questo punto stanno già controbattendo i legali dei due, rispettivamente Gino Bottiglioni e Gabriele Bordoni, il quale sostiene che sia certo “di poter dimostrare l’inconsapevolezza del mio assistito di quanto avvenisse nei capannoni e delle modalità di lavoro degli operai.”

È prevedibile che la donna stia cercando di infangare altri nomi nel tentativo di non prendersi tutta la responsabilità, però è altrettanto chiaro che anche i brand che hanno collaborato con lei, accettando e supportando le sue attività illegali, abbiano avuto un ruolo determinante all’interno della vicenda.

Per il momento, nonostante la Guardia di Finanza non abbia interrotto le indagini, vi è stato un sequestro di 4.7 milioni di euro in conti bancari, numerosi orologi di lusso, tra cui decine di Rolex, una Porche, una villa con piscina e borse di lusso.

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La maison di Louis Vuitton coinvolta nello scandalo dello sfruttamento della manodopera di Bologna?

È stato uno degli arrestati a capo del sistema di sfruttamento, nello specifico Jie Xu, anche conosciuto con il nome italiano di Francesco, ad affermare in alcune intercettazioni di “dover tirare fuori una linea per Vuitton”. Tuttavia, tali informazioni non sono ancora state confermate, perciò per il momento la maison francese non risulta in alcun modo coinvolta nello scandalo.

Alla luce di tutto ciò è impressionante riflettere su come il focus per quanto riguarda lo sfruttamento nel settore del fashion sia stato per un così lungo periodo sui paesi del terzo mondo, come il Bangladesh, in cui indubbiamente la problematica dilaga, ma senza immaginare che potesse toccare così da vicino anche l’Italia e il tanto rinomato Made in Italy, punto di forza di numerosi brand, nonché uno dei settori trainanti dell’economia italiana.

Non è da escludere, inoltre, che nella vicenda siano stati coinvolti anche altri brand e aziende rilevanti nella scena della moda, ma ci penseranno le indagini a confermare o smentire tale supposizione.

Conclusioni: lo scandalo di Bologna è l’ennesima riconferma di quanto lo sfruttamento dei lavoratori nell’ambito del fashion continui a essere una piaga sociale, da cui nemmeno il settore del Made in Italy, rinomato in tutto il mondo, sembra essere esonerato.

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