Siamo stati alla Design Economy 2023. Insight sul report.
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Siamo stati alla Design Economy 2023. Insight sul report.

Siamo stati alla Design Economy 2023. Insight sul report.

Siamo stati gentilmente invitati da Deloitte Italia nella splendida cornice dell’ADI Design Museum per partecipare all’appuntamento annuale della Design Economy in apertura della Milano Design Week con cui la città punta a consolidare il ruolo di polo nazionale nel settore. Un’iniziativa che nasce nel 2017 e vede come parti attive del progetto Deloitte Italia, Fondazione Symbola, POLI Design e naturalmente ADI (Associazione per il disegno industriale).

Alla conferenza odierna hanno partecipato Luciano Galimberti, presidente di ADI, a cui è toccato l’onere di aprire la conferenza, Giovanna Mancini, giornalista de Il Sole24ore, moderatrice della discussione, Ernesto Lanzillo, Deloitte Private Leader, Ermete Realacci, Presidente Fondazione Symbola, il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso (in collegamento video), Franco Caimi, amministratore delegato di Caimi Brevetti, Paolo Facchini, presidente Lombardini 22, Carlo Montalbetti, Direttore generale Comieco, Cristina Paleari, Lead Service & UX designer Design Group Italia.

Partiamo dall’annuncio del Ministro Urso che come già aveva rivelato in occasione dell’assemblea di Cosmetica Italia vede in dirittura d’arrivo–entro il mese sul tavolo del CdM afferma il titolare del dicastero per le Imprese e il Made in Italy–di un collegato alla manovra finanziaria focalizzato sul valore aggiunto derivato dal ‘prodotto in Italia’, un collegato per il made in Italy precisamente.

Ciò si inscrive in un disegno più ampio, volto a valorizzare e la percezione del Made in Italy come «bello, ben fatto e sostenibile» e soprattutto la centralità della persona all’interno di questo impianto casereccio. Centralità che fa ruotare attorno all’individuo la dimensione alimentare, nutrizionale, quella dell’apparire, la moda e le firme, infine, specificamente agendo sulla percezione dell’Italia come casa del benessere per la persona.

Un aspetto quest’ultimo che richiede una grande trasformazione infrastrutturale che vada incontro al mondo del lavoro agile, sì da poter rendere attraente la nostra patria per i nuovi apolidi dell’ufficio, le tante professionalità emergenti che non necessitano di lavorare in loco e possono scegliere il proprio domicilio in un punto qualsiasi del mondo che sia sufficientemente connesso alla rete. Quale posto migliore del Bel Paese si domanda il Ministro e dunque il lavoro sarà rendere l’Italia la casa accogliente per tanti lavoratori italiani e non sperando anche di invertire i trend di spopolamento dei centri medio piccoli disseminati lungo lo Stivale.

Naturalmente, a questo fine oltre il lavoro sulla banda larga e l’interconnessione che deve giungere sino agli angoli più remoti di Italia secondo la visione dell’esecutivo, diviene centrale il ruolo della Design Economy come disciplina di progettazione: non tanto e non solo dei prodotti, ma anche degli spazi, dei servizi, del benessere della persona.

Sciolinando un poco di numeri evidenziamo da subito che a livello europeo l’Italia ha un ruolo di primo piano nel settore: siamo addirittura primi per fatturato (19,9%) seguiti a brevissima distanza dalla Germania (19,1%) e poi da Francia (10,7%) e Spagna (6,7). Come si evince da un calcolo piuttosto semplice questi 4 Paesi costituiscono più della metà del fatturato totale degli Stati membri nel campo della Design Economy.

Traducendo in numeri frazionali un’impresa su 6 nel mondo del design in Europa è italiana, addirittura, un lavoratore su 5 è connazionale di chi scrive. Sono percentuali importanti ancorché riguardino una fascia di lavoratori piuttosto contenuta sebbene in crescente espansione. Una fotografia dello stato dell’arte inquadra 20.320 liberi professionisti e lavoratori autonomi, quasi 16.000 imprese, a cui si aggiungo altre 13.600 unità di lavoro che non rientrano nel codice Ateco di riferimento ma che hanno il design al centro o come elemento costituente della propria ragione sociale (dati 2020).

Il design italiano riguarda per lo più l’Italia, che pur parendo lapalissiano significa che il mercato di riferimento è quello domestico, a cui si rivolge il 67,2% delle imprese made in Italy. Del restante 27,8% solo l’8,6% si rivolge al mercato comunitario mentre il 24,2% esporta a livello globale. Destinatari dei servizi di design sono in primis le piccole e micro imprese (41,7%), seguite da quelle di media grandezza (26,2%), infine, le grandi imprese (20,4%). Nota dolente, «la quota di indicazioni inerenti alla Pubblica Amministrazione» ferma al 3,9%.

Quest’ultimo aspetto merita un poco d’attenzione in più. In apertura di dibattito il padrone di casa, Luciano Galimberti, ha richiamato all’attenzione degli astanti la dicotomia sostenibilità ambientale vs sociale: a questo proposito i dati delle survey condotte riportano che il 90% degli intervistati considera la sostenibilità ambientale importante, il 50% quella sociale e soprattuto meno dell’1% delle amministrazioni pubbliche tengono conto di quest’ulitmo aspetto nelle loro politiche decisionali.

Ciò significa che il design non parla il linguaggio del potere, la «lingua decisionale». È una riflessione che si potrebbe dilatare andando ad inglobare anche altri aspetti e preoccupazioni affini, penso ad esempio al lavoro di Susan Joy Hassol (dirigente di Climate Communication) nel campo della comunicazione ambientale. Ma non è questo il luogo per una digressione figuriamoci per una dissertazione.

Tornando a noi, questo aspetto problematico è stato subito raccolto dal Private Leader di Deloitte, Ernesto Lanzillo, il quale insiste molto sulla necessità che sia proprio la componente sociale della design economy a fare da trait d’union tra pubblico e privato, tra istituzioni e utenti. Una chiave di lettura quasi deterministica nella rigorosità del rapporto postulato che effettivamente coglie nel segno: dato il compito della Pubblica Amministrazione, di agevolare cioè il rapporto tra cittadini e Stato è impensabile non implementare i servizi e i principi che guidano la progettazione, naturalmente latu communitate.

In particolare, poi, prezioso l’intervento di Ermete Realacci nell’individuare i 3 driver che avvicinano il cittadino al tema della sostenibilità: un 10% è affidato all’imperativo categorico, dunque un richiamo etico, un 30% si lega alle paure e preoccupazioni che attanagliano l’immaginario collettivo, infine, il 60% vede nella sostenibilità una garanzia di qualità, e qui dev’essere il design come atto comunicativo il garante fiduciario di questo rapporto.

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