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Comprereste mai un auto dai Benetton?

Le ultime dichiarazioni di Gianni Mion, ex AD di Edizione, holding di proprietà Benetton, svela l’incompetenza che si cela dietro l’impero costruito dalla famiglia veneta.

L’inizio nel settore tessile

La storia di Benetton è iniziata nel 1965, quando l’omonima azienda è stata fondata a Ponzano Veneto, ricevendo immediato successo per gli innovativi colori accesi della maglieria che proponeva.

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I fratelli Benetton.

L’azienda è cresciuta in fretta, grazie alla fondazione di vari marchi accessori e all’apertura di molti negozi in franchising: dopo l’approdo a New York, nei primi anni ’80, il gruppo trevigiano ha iniziato una politica di grande espansione della distribuzione anche in Europa.

Il successo del prodotto e la quotazione in borsa nel 1986 hanno reso l’azienda molto redditizia, fornendo le risorse economiche per diversificare gli investimenti e arrivare, nel 2002, ad essere inclusi nella classifica di Forbes: con un patrimonio di 4,9 miliardi di dollari, la famiglia era al 62° posto fra i più ricchi del mondo.

La holding Edizione

Il grande successo economico dei Benetton, arrivato in pochi anni e interamente gestito da Gilberto, anima finanziaria della famiglia, non è derivato dal settore tessile, ma da tutti gli altri investimenti, avvenuti all’interno delle attività finanziarie della holding Edizione, fondata dalla famiglia nel 1981. 

Se nel 1994 il settore tessile rappresentava ancora il 100 % del fatturato della famiglia veneta, già nel 2003 copriva appena il 30 %. Difatti, mentre la catena di franchising iniziava un lento declino, con perdite annue di centinaia di milioni, i profitti derivanti dalle privatizzazioni statali raggiungevano la quota di un miliardo ogni anno.

Le acquisizioni, infatti, sono molte e varie: nel 1995, insieme a Leonardo Finanziaria e Movenpick Holding, i Benetton comprano dall’IRI il 28 % del gruppo SME (proprietario di GS e Autogrill); nel 1998 acquistano anche la tenuta agricola Maccarese di Roma ed entrano, con una partecipazione di minoranza, nel capitale di Pirelli.

Nel 2000, dopo la vendita delle proprie quote nel gruppo GS, è la volta dell’ingresso in Autostrade, di cui acquistano il 30 % delle quote; nel 2003, con un’Offerta Pubblica d’Acquisto, si è incrementato il numero di quote posseduto.

Al 2005 risale l’ingresso nel capitale di Investimenti Infrastrutture S.p.A., che detiene la Gemina S.p.A., proprietaria degli aeroporti di Roma. Due anni dopo, nel 2007, i Benetton entrano nel capitale di Mediobanca, con una partecipazione al 2 %, e comprano da Gemina S.p.A. gli aeroporti di Roma.

Il 2018 è l’anno dell’investimento in Cellnex, società spagnola che si occupa di infrastrutture per le telecomunicazioni; nel 2019, poi, incrementano la quota detenuta in Generali S.p.A.

Le privatizzazioni degli anni ’90 e la connivenza politica

Il Trattato di Maastricht del 1992 ha istituito il Mercato Unico Europeo e costretto l’Italia a competere con una concorrenza internazionale più efficiente; per sanare il divario, i governi degli anni ’90 – in particolare quelli di Prodi e D’Alema – hanno privatizzato le aziende statali, affidandole a imprenditori che potessero gestirle meglio.

Nel 2019, mentre era ospite da Lucia Annunziata, Romano Prodi, che fra 1993 e 1994 era stato presidente dell’IRI, si è lasciato sfuggire avrebbe dato il via alle privatizzazioni su richiesta dell’Europa. Forse, dunque, non si è trattato di una scelta voluta; di fatto, però, si è trattato dell’inizio dell’impero Benetton.

Pare che la famiglia veneta e il mondo politico, negli anni, abbiano stretto legami non troppo limpidi, dando avvio a un annoso scambio di favori. In particolare: nel 1997 l’allora Ministro dei Lavori Pubblici Paolo Costa ha aperto alla privatizzazione delle autostrade e nel 2010 è stato nominato Presidente della Spea Engineering, controllata da Autostrade per l’Italia.

Nel 2006, quando si stava studiando la possibilità di una fusione tra Autostrade per l’Italia e Abertis, i Benetton avrebbero finanziato le campagne elettorali di vari partiti, registrando un esborso complessivo di circa 1.100.000 €. Nel 2008, sotto il governo Berlusconi, le concessioni autostradali alla famiglia trevigiana sarebbero state rinnovate.

Nel 2009 sarebbe stato ancora il governo Berlusconi a prorogare di 35 anni la concessione relativa agli aeroporti di Roma e a togliere il limite posto all’incremento delle tariffe, purché questo fosse giustificato da un ammodernamento dell’infrastruttura.

Nel 2019, infine, un anno dopo il crollo del ponte Morandi, Atlantia, società controllata dai Benetton, è stata inclusa fra quelle che hanno contribuito al salvataggio di Alitalia.

Il caso Autostrade

La concessione autostradale si è rivelata estremamente redditizia. Negli anni, infatti, i pedaggi hanno registrato continui aumenti, al punto che il 27 aprile 2018 la Commissione Europea, nel rinnovare la concessione ad Autostrade per l’Italia fino al 2042, ne avrebbe chiesto, in cambio, una riduzione.

L’aumento dei pedaggi, a ben guardare, sarebbe stato concesso dallo stato, grazie alla IV convenzione aggiuntiva Anas – Autostrade del 23 dicembre 2002, che autorizzava tale aumento per un totale complessivo di 4,7 miliardi, da spendere per realizzare alcune infrastrutture, fra cui: nove svincoli, la terza corsia del GRA, la quarta corsia sulla MI – BG, la tratta Lainate – Como – Grandate e la terza corsia della Rimini Nord – Pedaso.

Ad oggi tali infrastrutture ancora non sono state realizzate e sono valse ai Benetton un’indagine per truffa aggravata ai danni dello stato e peculato: sembra infatti che i miliardi incassati negli anni siano serviti a sanare i debiti della holding Edizione, lasciando cifre irrisorie alla manutenzione ordinaria e straordinaria (nel 2016 si trattava appena del 3,4 % dei ricavi).

Il caso Morandi

Il 14 agosto 2018 è crollato il ponte Morandi e nel 2021 la famiglia veneta è stata costretta a vendere tutte le quote detenute in Autostrade per l’Italia.

Quella del ponte Morandi è una storia di incuria decennale: il progetto l’infrastruttura, costruita nel 1967 con le conoscenze dell’epoca, fu modificato per velocizzare i tempi di realizzazione e, in relazione alla pila 9 (quella crollata nel 2018), mancarono sia il collaudo statico sia i controlli della Direzione Lavori.

Da questo stato di cose scaturì l’ammaloramento della struttura e la corrosione dei cavi, nota già dal 1975 e che portò a lanciare l’allarme sia l’ingegnere Zanetti, di Spea, sia il progettista Riccardo Morandi, che nel 1979 stilò una relazione ad hoc, che evidenziava i progressi compiuti nella tecnica, e nel 1981 suggerì un restauro complessivo del ponte.

Nel 1991, in occasione di alcuni lavori di manutenzione, la ditta incaricata aveva fatto presente, in una riunione con i vertici di Autostrade per l’Italia, che sarebbe stato meno oneroso abbattere l’infrastruttura e ricostruirla ex novo piuttosto che procedere con una ristrutturazione totale, vista l’entità dei lavori da affrontare.

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Giovanni Castellucci, ex AD di Autostrade per l’Italia.

Nonostante ciò, al di là di un intervento di rinforzo della pila 11, eseguito nel 1993 da Michele Donferri Mitelli, allievo di Morandi, nei decenni successivi la manutenzione del ponte è stata trascurata sempre più, destinandole cifre irrisorie, come ha notato il PM Massimo Terrile durante un’udienza del 2022:

Non era il budget che doveva adeguarsi alle esigenze di sicurezza, ma erano le esigenze di sicurezza che dovevano adeguarsi al budget. Gli esiti di questa filosofia erano budget di 10.000, 15.000 € all’anno (per le manutenzioni) per l’opera più importante d’Italia. E chi decideva questa linea a cui tutti si adeguano? Il vertice, l’ex amministratore Giovanni Castellucci.

Pare che Castellucci, addirittura, quando il Ministero per le Infrastrutture gli ha chiesto chi fosse a dover validare il progetto (quando si interviene su opere così importanti, la prassi ingegneristica prevede di chiedere la validazione del progettista originario, o di un suo collaboratore), abbia spacciato per morto l’ingegnere Donferri, preferendo un ingegnere neolaureato che rispondesse ai suoi ordini.

Le dichiarazioni di Mion

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Gianni Mion, ed AD di Edizione.

Le recenti dichiarazioni di Gianni Mion svelano ciò che si nasconde dietro la bella facciata dei Benetton: l’ex AD ha dichiarato di essere entrato in Edizione nel 1986, con il compito di diversificare il portafoglio, «ma la verità è che eravamo incompetenti e le cose migliori le abbiamo fatte quando avevamo dei soci che ci aiutavano a capire».

In merito al disastro del ponte Morandi, si pente di non aver agito diversamente nel 2010, quando, durante una riunione con il CdA di Atlantia, gli AD, il Direttore Generale e i manager, è emerso il difetto originario di progettazione e il serio rischio di un crollo.

Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e Riccardo Mollo mi rispose «Ce la autocertifichiamo». Quella risposta mi terrorizzò…Castellucci era presente e non disse nulla. Era un accentratore forsennato, si occupava di ogni dettaglio. Non dissi nulla. Era semplice: o si chiudeva o te lo certificava un esterno. Non ho fatto nulla, ed è il mio grande rammarico.

Avevo la sensazione che nessuno controllasse nulla. La mia idea è che c’era un collasso del sistema di controllo interno e esterno; del Ministero non c’era traccia.

E sul futuro della famiglia dice che «bisogna inventarsi qualcuno che affianchi i Benetton perché il vero problema è la loro inettitudine… non c’è stata la minima presa di coscienza». In particolare, sostiene che Franca Benetton «dice delle cose e dopo cinque minuti dice l’opposto, non stimola gli investimenti», che il cugino Alessandro «adesso vuole i soldi perché lui ha un progetto, dice che è imprenditore e che gli altri non capiscono niente» e che Sabrina «incontra Franca ma i loro discorsi non sono mai molto concreti».

Conclusioni

Le ultime dichiarazioni di Gianni Mion chiariscono l’inadeguatezza della famiglia Benetton di fronte alla gestione dei propri investimenti, nonché la spregiudicatezza con cui hanno corso il rischio – poi concretizzatosi – di mettere a repentaglio delle vite umane in nome del guadagno. La stessa spregiudicatezza che hanno mostrato i vertici dirigenziali dell’azienda, sia nella persona di Mion, che ha taciuto per paura di perdere il posto, sia in quella di Castellucci, che si è più volte disinteressato alla questione della manutenzione.

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